Lo scorso ottobre la fondazione Symbola e l’ Union Camere, alla presenza del Ministro per la Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, hanno presentato il rapporto “Green Italy 2021”, giunto ormai alla sua dodicesima edizione. Si tratta di un rapporto importante che offre dati oggettivi e basi scientifiche per valutare lo stato dell’ arte della cosiddetta Green Economy in Italia. Una sorta di censimento delle imprese italiane più virtuose dal punto di vista della riconversione ecologica che quest’ anno è arrivato tra l’ approvazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e l’ attesa COP26 di Glasgow. Il primo destina gran parte delle sue risorse ad interventi per favorire la riconversione ecologica dell’ economia italiana, la seconda si è incentrata proprio sulla riduzione delle emissioni climalteranti. Vale la pena ricordare che degli ormai famosi 221,5 miliardi di Euro che l’ Italia riceverà dal Next Generation Eu, il capitolo di spesa più consistente, circa 60 miliardi di Euro, è proprio quello relativo a “Rivoluzione verde e transizione ecologica”. Appurato dunque che la transizione ecologica è diventato un asse strategico della politica industriale dell’ Italia e dell’ intera comunità europea, è lecito affermare che l’ analisi dei dati raccolti in questa ricerca permette di individuare quali siano le potenzialità ed i limiti del tessuto produttivo delle imprese italiane.
Un quadro generale positivo
Un primo dato generale che emerge è che anche in questa congiuntura negativa dove sulla crisi economica degli anni precedenti si è andata innestando la crisi dovuta alla pandemia, le aziende trovano margini di crescita interessanti. E sono proprio quelle più sensibili alle tematiche ambientali che stanno resistendo meglio alla crisi economica, anche in questa prima fase post pandemica. Il 16% delle aziende che nel quinquennio 2016-2020 hanno effettuato investimenti nella riconversione ecologica (innovazione di prodotto o di processo, risparmio idrico ed energetico, efficientamento, fonti rinnovabili, riuso dei materiali, ecc) è riuscito ad aumentare il proprio fatturato contro il 9% di quelle che non hanno avuto la stessa attenzione all’ ambiente. Ricadute positive si sono registrate anche in termini occupazionali con il 9% delle aziende “green” che ha assunto nuovo personale contro il 7% delle altre e di export, con aumenti del 16% contro il 12%. Sono quindi queste le imprese che incrementano maggiormente le proprie esportazioni, il proprio personale (peraltro sempre più specializzato) e il fatturato. A riprova del fatto che l’ attenzione alla questione ambientale non solo non danneggia l’ economia ma aumenta la competitività delle imprese. Sono oltre 441 mila, (circa un terzo del totale) le aziende italiane che negli ultimi cinque anni hanno continuato ad investire in iniziative di carattere ambientale. E quasi un quarto del totale conferma l’ intenzione di non sospendere gli eco-investimenti per il triennio 2021-2023. Ciò dimostra, secondo gli autori della ricerca, che la sostenibilità ambientale non è più percepita come un balzello arbitrario, ma come una necessità e un’ opportunità per aumentare la competitività delle imprese. Ormai fare business e piani industriali a lungo termine significa anche tutelare l’ ambiente. Queste scelte inoltre stanno condizionando a cascata tutta la catena dei fornitori, e chi non si adegua rischia di essere tagliato fuori dalle filiere. In conclusione, anche se probabilmente l’ ulteriore sviluppo di alcuni comparti della green economy dipende ancora molto dai forti contributi offerti dall’UE, sembra affermarsi tra gli operatori e gli stakeholder italiani la consapevolezza che favorire la transizione ecologica comporti anche un vantaggio economico.
Prospettive e opportunità
Uno degli aspetti più caratterizzanti il paradigma della green economy è senza dubbio quello legato al risparmio di energia primaria e di materie prime, soprattutto attraverso il riuso dei prodotti provenienti da scarti di lavorazione o di riciclo della materia, ovvero la cosiddetta economia circolare. Da questo punto di vista il rapporto mette in luce come il nostro paese sia fortemente competitivo perché avvantaggiato da condizioni storiche che potremmo ormai definire strutturali nell’industria italiana. L’ Italia infatti è un paese povero di materie prime e fin dall’ inizio della sua storia industriale ha dovuto sviluppare dei cicli produttivi con una forte propensione al risparmio e al recupero delle stesse. Alcuni esempi di eccellenza in questo settore sono filiere sviluppate ormai da decenni come quella del distretto dell’ industria tessile pratese che utilizza scarti tessili delle lavorazioni toscane, ma anche capi di abbigliamento usati provenienti da tutti i paesi del mondo sviluppando, già nei decenni passati, macchinari sempre più all’ avanguardia per il riciclo di tali prodotti. Oppure la produzione di acciaio mediante rifusione del rottame ferroso che garantisce oltre il 78% del fabbisogno nazionale. Secondo i redattori del rapporto “il riciclo dei metalli e dell’ acciaio in particolare, rappresenta non solo un mezzo per acquisire una materia prima per la produzione siderurgica, ma consente anche di risparmiare risorse naturali. Ogni tonnellata di acciaio riciclato permette di risparmiare 1,1 tonnellate di minerale di ferro, 630 chili di carbone, 55 chili di calcare, 52 chilowattora di energia elettrica, 1,8 barili di petrolio e 2,3 metri cubi di spazio in discarica. La produzione di acciaio utilizzando rottami di ferro consuma il 74% in meno di energia, il 90% in meno di materie prime vergini e il 40% in meno di acqua rispetto alla produzione di acciaio con ciclo integrale. Inoltre, riduce del 76% gli inquinanti, dell’ 86% le emissioni in atmosfera e del 97% i rifiuti di miniera. A conferma del valore del rottame ferroso, l’offerta di rottami di ferro è destinata ad aumentare nei prossimi anni, passando dagli attuali 700 milioni di tonnellate a 1.100 milioni di tonnellate nel 2030”. Per quanto riguarda il consumo di energia primaria l’ Italia è fortemente dipendente dai paesi produttori di gas, petrolio e nucleare. Questo sicuramente espone l’intero sistema economico a rischi di rincari improvvisi come quello a cui stiamo assistendo in questi mesi, oltre che a influenze surrettizie da parte dei paesi produttori che finiscono per assomigliare a vere e proprie guerre a bassa intensità. Eppure questa scarsità di fonti di energia primaria di origine fossile è ampiamente compensata dalla grande disponibilità di energia da fonti rinnovabili. Senza entrare nel merito del dibattito sulla reale possibilità delle fonti energetiche rinnovabili (FER) di sostituire le fossili, è fuori dubbio che l’Italia abbia le condizioni ottimali per sbilanciare il proprio mix energetico a favore delle FER riducendo, oltre che le emissioni di CO² anche la propria dipendenza dall’ esterno, mantenendo così anche gli impegni presi nelle sedi internazionali. Su questo fronte il percorso virtuoso che era stato intrapreso con i finanziamenti in conto energia, interrotti bruscamente nel 2011 dal governo Monti, è una dimostrazione delle potenzialità ancora inespresse.
Criticità e ostacoli
Il rapporto delinea quindi un quadro positivo per il futuro degli investimenti verdi in Italia. Il criterio della sostenibilità ambientale è entrato ormai nelle strategie industriali di molti settori dell’ economia italiana. La crisi economica e quella sanitaria non hanno fermato gli investimenti green perché sempre più imprenditori sono consapevoli dei vantaggi competitivi derivanti dalla transizione ecologica; la naturale vocazione della penisola ad attività a basso impatto e perfino le condizioni storiche dell’ industria italiana sembrano voler agevolare questa nuova evoluzione del sistema economico e produttivo cui stiamo assistendo. Eppure tra i bagliori di questo rapporto che illuminano le eccellenze italiane appaiono ben salde anche le strutture del vecchio mondo che tarda a cedere il passo. Se circa il 30% delle imprese italiane investe nella riconversione ecologica, ce n’è un’ altra metà abbondante ancora frenata che preferisce aspettare condizioni migliori o che fatica a intravederne i vantaggi sul lungo termine. Se le buone prestazioni in termini di riuso e consumo di materia prima ed energia sono il prodotto di condizioni determinatesi molto prima del Green New Deal, allora vuol dire anche che non stiamo beneficiando di vantaggi prodotti da una pianificazione industriale ed energetica moderna. Mancano investimenti importanti in ricerca e sviluppo, mancano competenze specifiche in ambito scientifico, mancano piani a lungo termine che diano certezze agli investitori; mancano normative chiare e facili da rispettare; manca il coinvolgimento delle comunità locali e dei territori; manca una classe dirigente sufficientemente stabile e capace di fare un piano coerente. Ma soprattutto forse manca, e non solo alle imprese, una riflessione profonda e un’ analisi condivisa di quanto questi sforzi siano realmente in grado di creare un modello di sviluppo sostenibile per l’ intero pianeta o solo di rendere sopportabile ancora per un po’ l’ aria che tira.