Addio a Paolo Pietrangeli, cantautore “apocalittico” e “integrato”

Voce del Sessantotto

Il 22 novembre ci ha lasciati Paolo Pietrangeli, cantautore simbolo del Sessantotto italiano, oltre che regista cinematografico e televisivo. Allora come oggi, non era facile vivere di musica in Italia, soprattutto per chi componeva canti di protesta o musica lontana dal mainstream, per cui lui faceva anche un altro lavoro, il regista e sceneggiatore. Ha infatti diretto, fra le altre sue opere, il Maurizio Costanzo Show, per quasi trenta anni, a partire dal 1982 e alla domanda se preferisse fare il cantautore o il regista, ha risposto ai microfoni di Mediaset che fare il regista gli permetteva di guadagnare, dunque di avere il “massimo della libertà nella musica”, senza alcun condizionamento. 

L’autenticità negli anni di piombo      

In effetti, negli anni ’60 e ’70 il “non professionismo” dei cantautori era considerato quasi  segno di “autenticità”, come spiega Iacopo Tomatis in un recentissimo e approfondito libro dal titolo Storia culturale della canzone italiana, edito da Feltrinelli. Dichiarare che i musicisti svolgessero anche un altro lavoro per vivere, diventava una strategia di marketing per le case discografiche, le quali presentavano i loro artisti come non vincolati all’industria culturale e dunque liberi di esprimere la propria opinione senza l’assillo del guadagno o dei dischi venduti (come se oggi i musicisti fossero liberi dalla schiavitù dei “like” o delle visualizzazioni).     Eppure la canzone Contessa, la più famosa di Pietrangeli, si potrebbe considerare musica di “consumo”, non per il contenuto, lo stile o per il numero di copie vendute, ma piuttosto nel senso letterale del termine: per la capillare diffusione nel popolo di studenti e operai in piazza, dove Contessa fu ascoltata e soprattutto cantata, divenendo per i decenni a seguire l’inno di quel movimento. La canzone seppur d’autore, si trasmise quasi come un canto di tradizione orale, “di bocca in bocca”, più che attraverso i dischi venduti. Come ha dichiarato lo stesso Paolo Pietrangeli, neanche lui si aspettava che a un certo punto fosse intonata da tutti i partecipanti di una manifestazione, infatti il quarantacinque giri in cui era inclusa non vendette moltissime copie, all’epoca furono 2500 in un anno, come afferma sempre Tomatis nel suddetto saggio. Sembra davvero una canzone ponte fra canto tradizionale e canzone d’autore. Un canto di protesta divenuto poi di largo consumo, un po’ come la carriera del suo autore “apocalittica” e allo stesso tempo “integrata”, riprendendo la dicotomia che Umberto Eco aveva coniato proprio in quegli anni (1964).

Una vita fra musica e cinema      

Paolo Pietrangeli, nacque nel 1945, a Roma, in un contesto culturalmente molto vivace, infatti suo padre era regista cinematografico e la loro casa era frequentata  da molte persone attive nel cinema, cosa che contribuì certamente allo sviluppo delle sue doti narrative. Nel 1966, mentre era studente universitario entrò a far parte del Nuovo Canzoniere Italiano, con altri cantautori quali Gualtiero Bertelli o Alfredo Bandelli e incise il suo primo quarantacinque giri insieme a Giovanna Marini. Il disco conteneva anche Valle Giulia, altra canzone ispirata alle rivolte studentesche nella Facoltà di Architettura, dove ci fu uno scontro fra polizia e studenti. L’inno del ’68 fu però, come dicevamo, Contessa ispirata a una conversazione tenuta in un bar di un quartiere ricco di Roma, fra persone altolocate. La canzone si snoda dunque alternando una strofa ironica in cui c’è un dialogo che denigra i rivoltosi  e una strofa che incita invece operai e studenti alla lotta politica.      Alla fine degli anni ’60 cominciò a occuparsi di cinema, collaborando con grandi registi quali Luchino Visconti (in Morte a Venezia del 1971), Federico Fellini (Roma del 1972), per poi produrre come autore e regista alcuni documentari, Bianco e Nero del 1975, sul neofascismo italiano e I giorni cantati del 1980, con la partecipazione di Francesco Guccini e Giovanna Marini, sulla musica impegnata dell’epoca. Dal 1982 tralasciò il cinema per dedicarsi alla televisione, dirigendo sia il Maurizio Costanzo Show che Amici di Maria De Filippi, entrando anche in politica come candidato prima con Rifondazione Comunista, poi con Sinistra Ecologia e Libertà e infine con Potere al Popolo, senza essere eletto. Nel 2001 girò un documentario sul G8 di Genova, dunque i temi politici, anche se  non disdegnò l’intrattenimento, furono sempre al centro del suo impegno sia come musicista che come regista.

La longevità di una canzone di protesta

Lo stile di Pietrangeli è ironico, le sue sembrano canzoni in prosa, si sente la bivocità dei romanzi, secondo consuetudine dei canti di lotta di raccontare momenti specifici, con nomi, date e descrizioni ambientali, come se ci fosse una videocamera a fare la cronaca dell’evento. Il genere apparteneva a quella che fu definita all’epoca la “linea rossa”, dal nome della collana in cui furono pubblicati alcuni dischi di musica militante in contrapposizione alla cosiddetta “linea verde”, una sorta di movimento di idee nato dal paroliere Mogol. Si trattava di un manifesto artistico e musicale ispirato al pacifismo del folk americano e alla fratellanza e si riconobbero in questo genere cantanti come Lucio Battisti, Patty Pravo, Caterina Caselli ecc. La “linea rossa” invece aveva un approccio più critico alle tematiche sociali e fu anche il nome di una collana discografica delle Edizioni del Gallo, in cui  cantarono oltre a Paolo Pietrangeli, Giovanna Marini, Ivan della Mea, Paolo Ciarchi, Rudi Assuntino.     Era la metà degli anni ’60 e il dibattito musicale procedeva di pari passo con lo sviluppo di una nuova classe sociale, trasversale a tutte le altre, quella giovanile, che trovava la propria identità negli stili musicali. E le canzoni di Pietrangeli hanno accompagnato diverse generazioni di questi “nuovi” giovani, con evidente longevità e un geniale eclettismo.    

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