Risale a pochi giorni fa l’annuncio roboante che il Comitato Interministeriale per la Transizione Ecologica (CITE), avrebbe stabilito tempistiche strette per interrompere l’immatricolazione delle automobili a combustione interna nel 2035, per ottemperare agli impegni presi col Next Generation Eu sulla riduzione delle emissioni carboniche. L’annuncio ha suscitato immediate dichiarazioni, smentite e controdichiarazioni per placare le reazioni preoccupate di uno dei settori industriali più inquinanti.
La forza economica di un settore perennemente in crisi
La crisi in cui versa il settore dell’automotive non è certo un fatto di oggi e la storia delle maggiori case automobilistiche europee è costellata di aiuti di Stato elargiti per evitare licenziamenti in massa e drammi sociali. Basti pensare che solo dal 1975 al 2014, anno in cui abbiamo visto la FIAT andare a cercare fortuna in America, secondo la Federconsumatori gli aiuti di Stato al gruppo torinese ammontavano a 220 miliardi di Euro. La celebre frase dell’avvocato Agnelli “Quello che va bene per la Fiat va bene per l’Italia” la dice lunga su quanto pesa questo settore nelle economie nazionali. Oggi, dopo due anni di pandemia, gli effetti sulla catena logistica e sui costi delle materie prime non fanno che aggravare la situazione. In questo quadro tutt’altro che promettente l’annuncio del CITE sulla necessità di accelerare con la transizione alla mobilità elettrica per raggiungere gli obiettivi di riduzione della di CO², ha allarmato l’Associazione Nazionale Filiera Industria Automobilistica (Anfia) che infatti non ha tardato a farsi sentire. In un comunicato stampa dell’11 dicembre si legge infatti: “La nota stampa diffusa ieri dal Comitato Interministeriale per la Transizione Ecologica ha sorpreso e messo in serio allarme le aziende della filiera produttiva automotive italiana e, probabilmente, anche tutti gli imprenditori e le decine di migliaia di lavoratori che rischiano il posto a causa di un’accelerazione troppo spinta verso l’elettrificazione, non essendo coerente con le posizioni espresse, ancora poche ore prima, da autorevoli esponenti del Governo.” E ancora: “ A nome di tutte le imprese della filiera, degli imprenditori italiani e dei lavoratori del settore automotive, auspichiamo un ripensamento, o comunque un chiarimento, su quanto espresso nella nota di ieri e, soprattutto, chiediamo al Governo italiano di fare quello che i governi degli altri Paesi hanno già fatto: dare delle certezze alla filiera e definire al più presto la road map italiana per la transizione produttiva e della mobilità sostenibile.”
La debolezza politica della transizione
Dal canto suo il Ministro per la Transizione Ecologica si è affrettato a rassicurare dai microfoni di sky tg24 che niente di concreto si sta ancora facendo sul blocco alle vendite di veicoli endotermici a partire dal 2035 “non è stata presa nessuna decisione né è stata fatta una norma. Dobbiamo dare una risposta come Paese alla Fit for 55 e dire, come tutti i Paesi Ue, da che punto di partenza intendiamo aprire la discussione sulla decarbonizzazione. Noi non abbiamo fatto una legge che dice che i motori a combustione interna vengono tolti al 2035, abbiamo semplicemente comunicato alla Commissione che, come tutti i Paesi Ue che sono costruttori di automobili, abbiamo deciso che per noi la base di partenza sarà quella più prudente, cioè dire che i motori a combustione interna dal 2035 non si dovrebbero fare più, per i furgoni ci vuole più tempo. Ma non è una norma che ha stabilito che questa cosa si fa, è la base della riflessione a cui l’Italia parteciperà con gli altri Paesi membri nell’ambito della Fit for 55”. Ma al di la degli annunci e dei controannunci i limiti all’implementazione di misure efficaci sono evidenti. Non esiste ancora una strategia che permetta di pianificare investimenti, formare le professionalità specifiche e quantificare le risorse necessarie. Per esempio non ci sono dati e previsioni obiettive sul medio e lungo termine di quali saranno le ricadute in termini occupazionali. Sempre nel comunicato stampa dell’ANFIA si legge ancora: “Solo qualche giorno fa, CLEPA, l’Associazione europea della componentistica, ha pubblicato uno studio in cui sono stati quantificati i danni, occupazionali ed economici, derivanti dalla possibile messa al bando dei motori a combustione interna al 2035 nei diversi Paesi manifatturieri a vocazione automotive, ed evidenziato che l’Italia rischia di perdere, al 2040, circa 73.000 posti di lavoro, di cui 67.000 già nel periodo 2025-2030.” Dati che spaventerebbero chiunque, ma che per essere presi senza isterismi, andrebbero confrontati col dato positivo di quanti posti di lavoro verrebbero creati dai nuovi green job. Inoltre rigenerare l’intero parco automobilistico nell’arco di 15 o 20 anni potrebbe essere un buco più grande della pezza anche dal punto di vista dell’impatto ambientale. Basti pensare alle tonnellate di materie prime richieste, ai terawattora di energia necessaria, e alla quantità di terre e minerali rari per le nuove tecnologie che già oggi sono causa di conflitti.
La transizione non è un pranzo di gala
È necessario uscire dalle logiche semplicistiche della ricerca di consenso e cercare strategie complesse, adeguate alla complessità della sfida. Da qualunque punto di vista la si guardi (mobilità, energia, inquinamento…) è evidente che la transizione ecologica, ammesso che riesca, non sarà un pranzo di gala. Ci saranno dei costi da pagare e al di là delle migliori intenzioni, se guardiamo la storia della nostra specie, possiamo presupporre che saranno proprio le fasce più deboli della popolazione a pagarli.