Diverse questioni sono state affrontate dai presidenti russo e cinese, durante l’ultimo colloquio virtuale: richiesta di garanzie internazionali di “sicurezza”, le Olimpiadi di Pechino 2022 come occasione per aprire un nuovo periodo nelle relazioni tra i due paesi, ma soprattutto l’impegno nel lanciare un nuovo modello di relazioni internazionali, ispirato al “vero multilateralismo”
Prove di diplomazia tattica
Per un’ora e mezza, il 15 dicembre, il presidente russo Vladimir Putin e il suo omologo cinese Xi Jinping hanno discusso le questioni d’interesse strategico attualmente suscettibili di diventare la base comune a Mosca e Pechino, per inaugurare una nuova fase nella cooperazione bilaterale tra le due potenze e per lanciare un nuovo modello di relazioni internazionali, ispirato al “multilateralismo autentico”. Un paradigma, che almeno nelle intenzioni dovrebbe imperniarsi anzitutto sul rispetto del principio della non-ingerenza negli affari interni di altri Stati, e sul sistematico riferimento al diritto internazionale e agli organismi teoricamente preposti alla sua salvaguardia. Cina e Russia, dunque, dopo essere state, soprattutto nell’ultimo anno, bersaglio di accuse, condanne e sanzioni, imposte o minacciate, da parte degli Stati Uniti e del loro sistema di alleanze, sembrano avviarsi verso una cooperazione bilaterale di tipo tattico, già sperimentata finora anche nel settore della difesa. Ad esempio, in agosto Cina e Russia hanno organizzato esercitazioni militari congiunte nel Ninxia, nel Nord-Est dell’Impero del Centro. Le operazioni, denominate Zapad / Interaction – 2021, hanno visto la partecipazione di circa 13.000 soldati, con l’obiettivo di salvaguardare la stabilità e la sicurezza dell’area, contro le minacce provenienti dal “terrorismo”, in particolare a seguito della ritirata statunitense dall’Afghanistan. Un momento storico, se si pensa che ai soldati russi è stato permesso di utilizzare armi di produzione cinese, tra le quali l’aereo da caccia stealth Chengdu J-20, considerato da Pechino uno degli armamenti più all’avanguardia dell’Esercito popolare.
Esercitazioni congiunte
Altre tre rilevanti esercitazioni militari congiunte si sono svolte, da allora, rispettivamente, a settembre, ottobre e novembre: la prima, Joint Sea 2021, messa in atto nel Golfo di Pietro il Grande, di fronte Vladivostok, ha riguardato la flotta; così come la seconda, che si è dispiegata nei pressi del conteso stretto di Tsugaru, che collega il Mar del Giappone e l’Oceano Pacifico; la terza esercitazione, invece, ha coinvolto le aviazioni russa e cinese, ma lo sconfinamento nell’area difensiva di identificazione sud-coreana (KADIZ) di due caccia cinesi e sette russi, aveva provocato l’immediata reazione di Seul. Infine, vale la pena di menzionare le esercitazioni navali congiunte tra la Russia e i Paesi dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico (ASEAN). Tale intensificazione della cooperazione militare sino-russa, ha destato preoccupazioni, oltre che nella Corea del Sud, anche nel Giappone, ha in sospeso con Mosca la contesa sulle Isole Curili, e con Pechino quella sulle Isole Senkaku/Diaoyu. Ma soprattutto, Tokyo fa parte del sistema di alleanze statunitensi, essendo integrata nel Quad, il “quadrilatero delle democrazie dell’Indo-Pacifico”, di cui fanno parte anche India e Australia. Di carattere esclusivamente militare, invece, è l’alleanza militare tripartita AUKUS, tra Australia, Regno Unito e Stati Uniti, nata il 15 settembre 2021 con l’esplicito obiettivo di contenere l’assertività cinese nel bacino strategico dell’Indo-Pacifico. La sua antecedente, la ANZUS, comprendeva anche la Nuova Zelanda, esclusa da AUKUS a causa del divieto di accesso ai sottomarini nucleari nelle sue acque. Una mossa che ha suscitato inquietudine a Mosca e Pechino, al punto che durante il video-colloquio del 15 dicembre, Putin e Xi Jinping hanno criticato questa alleanza, che “mina le fondamenta del regime di non-proliferazione nucleare” e aumenta le tensioni nell’Indo-Pacifico.
Mosca e Pechino alfieri del multilateralismo?
Il “nuovo modello di cooperazione” lanciato da Putin e Xi Jinping, oltre che sul principio di non-ingerenza, si fonda altresì sul “rispetto degli interessi reciproci e sulla determinazione a trasformare il confine condiviso in una cintura di pace eterna e buon vicinato”. La comune critica della “retorica aggressiva” di cui entrambi accusano Washington sembra quindi offuscare, almeno per ora, i punti di attrito tra Mosca e Pechino, a partire dai progetti cinesi relativi alle nuove vie della seta (Belt and Road Initiative) nell’Artico, che dovrebbero attraversare lo spazio russo. Altro dossier spinoso che divide le due potenze è il mancato riconoscimento ufficiale cinese del referendum per l’annessione della Crimea (formalmente ucraina, ma a maggioranza russa e affacciata sul bacino strategico del Mar Nero) alla Russia, ufficialmente ricondotto alla linea anti-separatista di Pechino. Al contrario, lo scorso ottobre, il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ha dichiarato pubblicamente che “per la Russia Taiwan fa parte della Cina”. Così, Xi Jinping, durante l’ultimo colloquio, ha assicurato a Putin il sostegno cinese alla richiesta rivolta dal Cremlino a Washington di “garanzie legali di sicurezza” sull’allargamento dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico Nord (NATO) in Europa orientale. Inoltre, lo ha invitato alle Olimpiadi invernali di Pechino 2022, colpito dal boicottaggio diplomatico di USA, Regno Unito, Canada e Australia, che Russia e Cina considerano “un tentativo di politicizzare lo sport”. “Finalmente a febbraio potremo finalmente incontrarci di persona a Pechino”, ha risposto Putin, la cui presenza alle competizioni sportive internazionali (al pari di quella di tutti i funzionari del governo russo) è vietata, salvo inviti da parte dei paesi ospitanti. Si tratta di una delle misure che, dal 2019, l’Agenzia mondiale anti-doping ha imposto alle istituzioni sportive russe per quattro anni, con l’accusa di aver messo in piedi un sistema di doping “di Stato”.
Tra la superpotenza USA e l’Impero del centro
Dunque, la convergenza sino-russa si può considerare uno dei primi frutti del modello di relazioni internazionali che il presidente USA Joe Biden propugna dal suo insediamento. A differenza dell’ex presidente USA Donald Trump, che sfidava Pechino sul piano delle leggi del mercato globale (si ricordino le accuse alla Cina di concorrenza sleale o di furto della proprietà intellettuale), mantenendo con la Russia un rapporto di coesistenza quasi pacifica, l’attuale inquilino della Casa Bianca propende piuttosto per una narrazione ideologizzante, che, per certi aspetti, richiama quella in voga durante la guerra fredda. Solo che, mentre allora la contrapposizione era, almeno in teoria, tra due modelli alternativi, non solo di relazioni internazionali, ma anche e soprattutto di organizzazione socio-economica, oggi l’antinomia è tra società parimenti strutturate da sistemi di produzione di tipo capitalista, sia pure con un diverso ruolo dello Stato e dei suoi apparati. In fondo, sia Washington, sia Pechino puntano sulla capacità di investimento per espandere le rispettive aree di proiezione strategica, dando vita a una concorrenza che, soprattutto in alcune regioni, pone paesi formalmente sovrani di fronte ad annosi dilemmi: un tempo appartenenti al sistema di alleanze statunitense, molti di essi hanno stabilito con l’Impero del centro importanti partenariati, che spesso vanno oltre la cooperazione economico-commerciale, mettendo in discussione la protezione militare degli USA.
“Dialogo degli Ateniesi e dei Melii sulla giustizia in guerra”
Ciò avviene in particolare in Medio Oriente e in Asia Centrale, dove le sfere di influenza di USA, Cina e Russia si intersecano, talvolta sovrapponendosi. Il primo esempio è quello del Pakistan, che ha declinato l’invito al vertice per la democrazia organizzato da Biden agli inizi di dicembre. “Noi diamo valore al partenariato con gli USA, che vogliamo espandere, sia a livello bilaterale, sia in termini di cooperazione regionale e internazionale”, ha precisato una nota del Foreign Office pakistano, “restiamo in contatto con gli USA su una serie di questioni e crediamo di poterci impegnare su questo tema in un momento opportuno, nel futuro”. Un secondo esempio potrebbe essere quello degli Emirati Arabi Uniti (EAU), che il 14 dicembre hanno annunciato la sospensione dei negoziati per l’acquisto di 50 caccia stealth F-35. Questi facevano parte di una cospicua partita di armamenti, dal valore complessivo di circa 23 miliardi di dollari, la cui vendita ad Abu Dhabi era stata pattuita lo scorso anno dall’amministrazione Trump (in concomitanza con gli accordi di Abramo, tra USA, EAU e Israele). Quest’ultima, poco prima della fine del suo mandato, l’aveva tuttavia sospesa fino ad aprile 2021: motivazione ufficiale, la partecipazione degli EAU alla guerra in Yemen, ma la quasi totalità degli analisti vi legge il timore degli USA che una potenza rivale possa appropriarsi di armamenti tecnologicamente avanzati di loro produzione. Lo scorso aprile, il Dipartimento di Stato USA aveva poi reso noto che le trattative sarebbero riprese, ma i mesi successivi sono stati di stallo. Di conseguenza, nonostante Washington resti per loro il primo paese venditore di armamenti, gli EAU si sono rivolti anche ad altri produttori, come la Francia, con l’acquisto di 80 caccia Rafale e 12 elicotteri Caracal, prodotti dalle francesi Dassault Aviation e Airbus, per 17 miliardi di euro (accordo siglato una settimana prima della sospensione della trattativa con gli USA). Peraltro, agli inizi di dicembre, Washington aveva spinto gli EAU a interrompere i lavori di costruzione che avrebbero realizzato il progetto di un porto vicino alla capitale emiratina, motivando le sue pressioni con i rischi che Pechino potesse usare il sito per scopi militari. Nondimeno, nel caso dell’acquisto di F-35, Abu Dhabi ha preferito per ora fare un cauto passo indietro, dopo aver valutato, come ha dichiarato un funzionario dell’ambasciata emiratina a Washington, “i requisiti tecnici, le restrizioni operative sovrane e l’analisi costi-benefici”.
Doppio standard (democratico)
Se l’intesa sino-russa non è scevra da ombre, l’approccio ideologizzante alle relazioni internazionali, portato avanti da Biden, non manca di aspetti contraddittori, a partire dai criteri in base ai quali attribuisce, a paesi e individui, la qualifica di “democratico”. Criteri che rispondono più a esigenze tattiche o strategiche che non a effettive considerazioni di merito, finendo per offrire il fianco a provocazioni da parte di paesi avversari. Ne sono un esempio le ultime dichiarazioni provenienti dall’Iran: minaccia di sanzioni contro gli USA per il trattamento riservato agli afro-americani, e di reazioni in caso di sconfinamento durante le esercitazioni militari congiunte di USA e Israele. Eppure, la stessa prospettiva ideologizzante è stata importata in Europa, come dimostra la recente assegnazione del premio Sakharov all’oppositore di Putin Alexej Navalny, da parte del Parlamento europeo. La motivazione è stata declamata dal presidente David Sassoli, secondo cui “Navalny ha combattuto instancabilmente contro la corruzione del regime di Putin. Questo gli è costato la libertà e quasi la vita”. Nessuna menzione, invece, della sua passata militanza nell’estrema destra, ultranazionalista e xenofoba, che sosteneva la campagna di Putin in Georgia, definiva i migranti (soprattutto musulmani) “scarafaggi” e decantava l’ascesa di movimenti nazionalisti in Europa, come il Fronte nazionale in Francia o la Lega in Italia. Silenzio anche sul fatto che, a causa di alcune sue dichiarazioni discriminatorie, Amnesty International aveva deciso, lo scorso febbraio, di revocargli lo status di “prigioniero di coscienza”. Salvo poi assegnarglielo di nuovo, a maggio. Ma il dubbio sorge, su che cosa abbia indotto l’Europa a preferire, come esempio di lotta alla corruzione, Navalny a Julian Assange.