lunedì20 Marzo 2023
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Cina: intese mediorientali

L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti guardano a Pechino come a un alleato utile in caso di eccessiva ingerenza...

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L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti guardano a Pechino come a un alleato utile in caso di eccessiva ingerenza o di disimpegno da parte degli Usa; la Cina è disposta a investire ingenti capitali in piani di cooperazione complessi, articolati su più settori: materie prime, infrastrutture, armi; Washington teme i partenariati in settori strategici, come la difesa o la tecnologia, che insidiano i suoi satelliti

Yemen: guerra per procura tra Arabia Saudita e Iran

Il 26 e 27 dicembre, la coalizione di paesi arabi guidata dall’Arabia Saudita ha lanciato un’ondata di bombardamenti aerei su larga scala contro i ribelli yemeniti Houthi, prima sulla capitale Sanaa nell’area dell’accademia dell’aeronautica, quindi, con maggiore intensità, sull’aeroporto della stessa città. Una reazione al lancio di missili, due giorni prima, sulla città saudita di Jazan, che aveva provocato la morte di due persone. Durante un conferenza stampa, il portavoce della coalizione, Turki al-Maliki, ha dichiarato che l’aeroporto era stato scelto dagli Houthi come deposito di armi e “centro principale per il lancio di missili balistici e droni”. Inoltre, mostrando un video, ha spiegato che esso era diventato il “quartier generale degli esperti iraniani e di Hezbollah”, accusati da Riyadh di sostenere i ribelli yemeniti con armi, finanziamenti e addestramento militare. Nello stesso giorno in cui riprendono a Vienna i negoziati sul nucleare iraniano, emergono dunque le preoccupazioni saudite di fronte all’eventualità che una reintegrazione della Repubblica islamica nella comunità internazionale possa favorirne una qualche forma di ascesa geopolitica, a discapito degli interessi delle monarchie del Golfo, tradizionali alleati degli Stati Uniti. Dal canto suo, Washington, vorrebbe che in Medio Oriente il primato strategico e negli armamenti fosse esclusivo appannaggio di Israele, da un lato ritenendo paesi come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti (Eau) alleati importanti, ma destinati a restare in posizione ancillare, dall’altro considerando l’Iran come interlocutore da tenere sotto osservazione, ma utile a contenere eventuali velleità geopolitiche di altri attori regionali.

Alleati o satelliti?

Di contro, durante l’amministrazione dell’ex presidente Donald Trump, che aveva adottato nei confronti di Tehran la politica della “massima pressione”, gli Usa erano più propensi a delegare il mantenimento degli equilibri mediorientali a più attori di fiducia: Tel Aviv era sempre in posizione di preminenza assoluta, ma, sia pure con grande distacco, era seguita da Riyadh e da Abu Dhabi. Quest’ultima, non a caso, è stato il primo paese arabo a firmare con Israele gli accordi di Abramo, primo caso di normalizzazione delle relazioni tra un paese arabo e lo Stato ebraico dopo il trattato di pace israelo-egiziano del 1979. La politica estera di Trump, inoltre, era fondata sulla vendita di armamenti e formazione agli alleati arabi del Golfo, affinché provvedessero da soli alla propria difesa, senza invocare l’aiuto statunitense. Secondo lo stesso principio, Trump aveva invitato gli alleati dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico Nord (Nato) a investire il 4% del loro prodotto interno lordo nella difesa, plaudendo all’offerta del governo polacco di una base permanente per gli Usa, interamente finanziata da Varsavia. Di qui gli accordi faraonici per l’acquisto di armamenti firmati da Washington con Riyadh e Abu Dhabi. Era dunque emersa l’importanza strategica, per Washington, di Eau e Arabia Saudita, che pure non avevano mai neanche tentato di trarne benefici geopolitici, a differenza di paesi come l’Egitto e la Turchia in Medio Oriente, o la Polonia in Europa orientale.

Il dilemma di Riyadh… e di Abu Dhabi

In sostanza, se l’attuale presidente Joe Biden, al pari del suo antecedente democratico Bill Clinton, considera essenziale recuperare il controllo del settore militare dei paesi alleati per preservare lo status di superpotenza degli Usa, è pur vero che l’isolazionismo trumpiano, benché lasciasse maggiori margini di manovra, aveva posto alleati come le monarchie del Golfo (o il Giappone, negli equilibri dell’Indo-Pacifico) di fronte a un dilemma: continuare ad affidarsi esclusivamente alla protezione e al sostegno di Washington, oppure perseguire i propri interessi strategici. Questo dilemma è tanto più cogente, se si considera che dal Congresso statunitense (che già aveva contestato l’Arabia Saudita in occasione dell’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul) erano giunte manifestazioni di perplessità sulla vendita di armi a Riyadh. Di qui la necessità, per quest’ultima, di diversificare le fonti di approvvigionamento di armamenti. Ad esempio, Riyadh (che in questo settore non riceve sostegno dagli USA), oltre ad aver comprato missili dalla Cina sin dagli anni ‘80, aveva mostrato interesse per i sistemi di difesa missilistica israeliani Barak ER e Iron Dome, pur non avendo mai manifestato l’intenzione di avviare una propria produzione di armi. Fino al 23 dicembre scorso, quando l’emittente statunitense Cnn ha diffuso la notizia secondo cui negli ultimi mesi le agenzie di intelligence USA hanno raccolto rilevazioni satellitari su una produzione di missili balistici da parte dell’Arabia Saudita, con il supporto tecnologico della Cina. Indizi presentati come preoccupanti dalla Cnn, perché potrebbero fornire alla Repubblica islamica il pretesto per non rinunciare a fabbricare a sua volta i suoi missili balistici, il che complicherebbe i negoziati internazionali sul programma nucleare iraniano, ripresi a Vienna il 27 dicembre. Il regno saudita si trova dunque in una posizione analoga a quella degli Eau, che di recente hanno sospeso i negoziati con gli Usa per l’acquisto di una partita di armamenti del valore di circa 23 miliardi di dollari.

Gli interessi cinesi nel Golfo

Dal canto suo, la Cina ha come principali partner mediorientali non solo gli Eau e l’Arabia Saudita, ma anche l’Iran, il loro acerrimo rivale regionale, con il quale Pechino ha firmato a marzo un accordo di “partenariato strategico”. Ne consegue l’impossibilità per Riadh e Abu Dhabi di contare sull’integrazione nelle nuove vie della seta cinesi (Bri – Belt and Road Initiative) per affermare i loro interessi su quelli di Tehran e la necessità implicita di instaurare relazioni con diverse potenze mondiali: ad esempio, di recente gli Eau hanno acquistato armi dalla Francia, mentre l’Arabia Saudita si è mostrata interessata agli equipaggiamenti israeliani. Intanto, la compagnia statale Saudi Arabian Military Industries ha costituito una “joint venture” con la società francese Figeac Aéro, che potrà impiantare un proprio stabilimento nel regno saudita per la produzione di componenti di velivoli militari. Certo, la tecnologia cinese fa gola a emiratini e sauditi, mentre il petrolio e le altre materie prime della penisola araba e dell’Iran attraggono l’Impero del centro, al pari delle possibilità di sfruttarne porti e sviluppare infrastrutture. Lo scorso gennaio, la China Ocean Shipping Company (Cosco) aveva rivolto la sua attenzione al porto saudita di Jeddah, sul Mar Rosso (300 kilometri a Sud della base Usa di Yanbu), per acquisire il 20% del terminale riservato ai container e una quota della società Red Sea Gateway Terminal, cui partecipa anche il fondo sovrano saudita Public Investment Fund. Sull’altra sponda della penisola araba, sul Golfo Persico, la stessa compagnia cinese, dalla scorsa primavera stava costruendo un porto vicino ad Abu Dhabi, finché all’inizio di dicembre le pressioni Usa non hanno costretto le autorità emiratine a sospendere i lavori, per il sospetto che le infrastrutture interessate avessero anche un uso militare. Entrambi i siti fanno parte della via marittima delle nuove vie della seta, ma né l’Arabia Saudita, né gli Eau pensano di abbandonare l’alleanza con Washington per affidarsi a Pechino. Il 7 dicembre, Riyadh si era rivolta agli Stati Uniti e all’Europa, chiedendo rifornimenti di “munizioni” per difendere il proprio territorio dagli attacchi missilistici degli Houthi.

“Una cintura, una via”… un mercato

Gli interessi cinesi in Medio Oriente riguardano quindi concessioni sull’estrazione di materie prime (soprattutto petrolio, ma anche uranio in Arabia Saudita) e accordi bilaterali per la costruzione o l’ampliamento di porti e per lo sviluppo di vie di comunicazione. Tutto ciò sottende la volontà di proiettare la propria potenza economica sul piano geopolitico, proponendo un diverso modello di alleanze, scevro della retorica della “missione civilizzatrice” dell’“Occidente” o dell’“esportazione di democrazia”. Al contrario, ricorrendo alle più astute tattiche commerciali e di “marketing”, l’Impero del centro sfida Washington sul piano di quel libero mercato nel nome del quale nel XIX secolo le potenze coloniali europee lo avevano costretto a firmare trattati umilianti, approfittando della sua inferiorità a livello militare. Ai paesi che intendano prendere parte all’iniziativa delle nuove vie della seta (che comprendono una cintura terreste settentrionale e una via marittima meridionale), Pechino offre investimenti e posti di lavoro, anche se le condizioni dei lavoratori coinvolti sono spesso insostenibili. In cambio, chiede cooperazione economica, ma soprattutto aspira al controllo del territorio attraverso il dominio delle rotte commerciali, tanto terrestri, quanto marittime. Se nella politica interna, lo Stato neoliberale guida la società come se fosse un’azienda, la Cina applica la stessa logica alle relazioni internazionali, così a lungo plasmate dalle diseguaglianze e dagli squilibri prodotti da quasi due secoli di mercato globale.

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