Mentre a Vienna inizia l’ottavo ciclo di negoziati sul programma nucleare in Iran, il presidente russo invita il suo omologo della Repubblica islamica a Mosca, per il prossimo gennaio; Tehran, intanto, si prepara a ospitare il prossimo incontro relativo al processo di pace in Siria
Ripresa delle trattative
Il 27 dicembre, a Vienna, i rappresentanti di Iran, Russia, Cina, Unione europea (Ue), Francia, Germania e Regno Unito hanno aperto l’ottavo ciclo di negoziati sul programma nucleare iraniano, volto a ristabilire un accordo fra Tehran e la comunità internazionale, sul modello del Piano d’azione congiunto globale, noto con l’acronimo inglese Jcpoa. Secondo il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amirabdollahian, il dialogo prosegue nella giusta direzione e si potrà pervenire a un accordo vantaggioso per tutti, se le parti interessate «continueranno a dar prova di buona fede». Inoltre, ha spiegato, le trattative verteranno d’ora in poi su un nuovo documento condiviso, che sostituisce quello siglato lo scorso giugno, includendo, oltre alle questioni strettamente inerenti al programma nucleare, due fondamentali richieste di Tehran: la garanzia che gli Usa non romperanno unilateralmente un futuro trattato, come fecero nel 2018 con il Jcpoa, e la possibilità per l’Iran di verificare nel tempo l’abolizione effettiva delle sanzioni. Richieste indirette, rivolte agli Stati Uniti, che ancora una volta, come nella scorsa tornata di colloqui, non hanno preso parte ai negoziati, poiché l’Iran rifiuta qualsiasi dialogo diretto finché sarà in vigore il regime delle sanzioni. Tanto più che, il 7 dicembre scorso, Washington ne ha imposte di nuove, quattro giorni dopo la conclusione del settimo ciclo di negoziati sul nucleare iraniano (iniziato il 29 novembre). Sulle nuove richieste di Tehran, qualche perplessità è stata espressa, già da fine novembre, dalle cancellerie europee e britannica, che premono per una rapida conclusione dei negoziati. A tal proposito, il coordinatore delle trattative, l’inviato dell’Ue, Enrique Mora, in conferenza stampa ha detto che un risultato positivo si potrà raggiungere solo grazie a un duro lavoro, ma il vero ostacolo è che, per far funzionare un qualsiasi accordo, sia Washington, sia Tehran dovranno prendere «decisioni politiche difficili». Più drastici gli Stati Uniti, che considerano questi colloqui di Vienna come l’ultima possibilità per l’Iran di giungere a un’intesa oppure ridimensionare il programma nucleare. In caso contrario, come aveva già ammonito il presidente Joe Biden, Washington è pronta a prendere in considerazione altre vie.
Niente di nuovo sul fronte israelo-statunitense
Per arginare il disastro economico causato da quasi quattro anni di isolamento internazionale, il governo iraniano guidato dal presidente Ebrahim Raisi, entrato in carica lo scorso giugno, ha fatto dell’abolizione del regime di sanzioni imposte dagli Usa e dall’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu) una delle priorità della sua agenda politica. Quindi, è anche interesse di Tehran abbreviare i tempi per un accordo con la comunità internazionale, poiché in ballo ci sono da un lato la ripresa delle esportazioni di petrolio, settore trainante dell’economia del paese, e dall’altro, a lungo termine, la possibilità di stabilire, tra Medio Oriente e Golfo, un assetto geopolitico in cui siano presi in considerazione anche gli interessi strategici iraniani. Infatti, se la ripresa dei colloqui appare difficile, la causa principale è l’acuirsi delle tensioni tra Tehran e i suoi rivali regionali (Israele e Arabia Saudita in primis), a sua volta essenzialmente dovuta alla politica della massima pressione adottata dall’ex presidente Usa Donald Trump e dal suo consigliere per il Medio Oriente Jared Kushner. Una linea rispetto alla quale, agli occhi della Repubblica islamica, Biden non ha mostrato significative soluzioni di continuità. A partire dalla visita a Tel Aviv, lo scorso 22 dicembre, del consigliere per la Sicurezza nazionale statunitense Jake Sullivan, che parlando con il primo ministro israeliano Naftali Bennet ha ribadito l’importanza di una «strategia comune» per salvaguardare gli interessi di Israele e Usa. Bennet, dal canto suo, pur non dichiarandosi contrario a un accordo sul nucleare iraniano, auspica che le cancellerie occidentali coinvolte assumano posizioni più decise, accusandole di trattare con Tehran come se fosse in una posizione di forza. Ancora più dure le dichiarazioni di Zohar Palti, capo dell’ufficio politico-militare del ministero della Difesa israeliano ed ex capo della direzione del Mossad. A suo avviso, il nodo del programma nucleare iraniano è che «non c’è un meccanismo diplomatico per fermarlo», perché non esiste un adeguato strumento di deterrenza.
L’Iran cerca il supporto di Cina e Russia
Di fronte alle posizioni intransigenti di Stati Uniti e Israele, e alle ambivalenze europee, l’Iran cerca altrove le garanzie di cui necessita. Da questo punto di vista, Cina e Russia, soprattutto dopo la recente intesa tattica tra i rispettivi presidenti, Xi Jinping e Vladimir Putin, costituiscono un’alternativa valida, in primo luogo nel contenimento delle mire geopolitiche di Washington a livello mondiale e di Israele a livello regionale. In secondo luogo, Mosca e Pechino, entrambe membri permanenti del Consiglio di sicurezza Onu, e soprattutto entrambe a capo di significativi sistemi di alleanze, sono in grado di offrire sostegno alla Repubblica islamica, in caso di fallimento dei negoziati sul nucleare, in particolare acquistando petrolio nonostante le sanzioni statunitensi. In terzo luogo, all’Iran sarebbe d’aiuto il sostegno di Cina e Russia, due potenze che, sotto la crescente pressione di Washington che tenta di eroderne la profondità strategica, negli ultimi anni hanno proposto a più riprese un ordine mondiale basato sul multipolarismo, sulla coesistenza pacifica e sul principio della non ingerenza. L’inviato cinese a Vienna, Wang Qun, ad esempio, ha rimarcato che sul nucleare iraniano, e in generale sulla questione della non proliferazione nucleare, non si dovrebbe ricorrere al meccanismo dei due pesi e due misure per perseguire i propri interessi particolari. Un riferimento alle preoccupazioni recentemente espresse dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica riguardo l’alleanza militare tra Australia, Regno Unito e Stati Uniti (Aukus), che comporta il sostegno a Canberra nella produzione di sottomarini a propulsione nucleare. Infine, ha aggiunto Qun, non si dovrebbero usare le sanzioni come strumento di minaccia e non bisognerebbe imporre nuove sanzioni all’Iran durante i negoziati. Del resto, Pechino, che spesso punta il dito contro Washington accusandola di strumentalizzare a fini strategici temi come i diritti umani o la democrazia, ha già siglato con Tehran, lo scorso marzo, un accordo di partenariato strategico della durata di 25 anni: investimenti cinesi per oltre 400 milioni di dollari in settori chiave dell’economia iraniana (soprattutto gas e petrolio, infrastrutture e nuove tecnologie) e intensificazione della cooperazione nel settore militare.
L’intesa russo-iraniana passa per la Siria?
Per ragioni analoghe, la Russia rappresenta per l’Iran un altro potenziale alleato tattico, anche in virtù delle sue buone relazioni con Israele, con cui la Repubblica islamica è da anni impegnata in un conflitto per procura in Siria. Sui colloqui di Vienna, il 28 dicembre l’inviato russo Mikhail Ulyanov si è dichiarato ottimista, parlando di «progressi indiscutibili» e riferendo che la revoca delle sanzioni è argomento di discussioni informali tra i negoziatori. Lo stesso giorno, in un’intervista all’agenzia stampa russa Tass, Dimitry Peskov, portavoce del Cremlino, ha annunciato che a gennaio 2022 Raisi incontrerà Putin a Mosca e che tra i due paesi si stanno instaurando «contatti di alto livello». La Russia, come l’Iran, ha chiesto di recente agli Usa garanzie ufficiali, sia pure con motivazioni diverse (i timori russi legati alle esercitazioni militari di Washington e dei suoi alleati in territori pericolosamente vicini al confine russo), e attende di riceverne nei colloqui con l’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico Nord (Nato), che dovrebbero tenersi a gennaio. Nell’attesa, il 27 dicembre, dopo il ritiro di circa 10mila soldati dalle regioni a ridosso della frontiera con l’Ucraina, il ministero della Difesa russo ha organizzato esercitazioni militari aeree lungo il confine occidentale, simulando un massiccio attacco da parte di un’aviazione nemica. Lo stesso giorno, peraltro, il quotidiano russo Izvestija ha riferito, a partire da rilevazioni satellitari, che un Boeing E-8C dell’aviazione militare statunitense, decollato dalla base tedesca di Ramstein per effettuare operazioni di ricognizione in Ucraina, si è avvicinato al confine russo. Un episodio analogo si era verificato il 10 dicembre, quando l’aviazione russa aveva intercettato un aereo statunitense da ricognizione, Poseidon P-81, mentre sorvolava il Mar Nero. Con la Russia (e con la Turchia), inoltre, l’Iran è impegnato nel processo di pace di Astana, sul conflitto in Siria, la cui prossima riunione dovrebbe tenersi a Tehran all’inizio del prossimo anno.
Russia-Israele-Iran: il nodo di Latakia
La terza ragione che rende allettante agli occhi di Tehran un’intesa con la Russia, sono le relazioni che quest’ultima ha con Israele, per ragioni non solo culturali (il russo è la terza lingua più diffusa nello Stato ebraico, dopo l’ebraico e l’arabo), ma anche geopolitiche. Benché i soldati israeliani nel 2006, abbiano trovato indizi di dispositivi anticarro russi nelle mani del movimento libanese sciita Hezbollah, e malgrado la condanna da parte di Mosca dell’attacco israeliano alla striscia di Gaza, è rimasto tra i due paesi un rapporto pragmatico. Ad esempio, nel 2015 Israele accolse favorevolmente la notizia dell’intervento militare russo in Siria, poiché lo considerava una misura di contenimento della capacità di proiezione dei suoi acerrimi rivali, Iran e Turchia, anche se questi per Mosca sono sempre rimasti, in varia misura, importanti interlocutori sullo scacchiere regionale, come dimostra il processo di pace di Astana. Pertanto, pur perseguendo una caccia sistematica agli obiettivi iraniani in territorio siriano (principalmente depositi di armi), Tel Aviv si era sempre guardata bene dal colpire siti e postazioni in aree di competenza russa. Senonché, il 28 dicembre l’agenzia stampa siriana Sana ha riferito che l’aviazione israeliana ha lanciato missili dal Mediterraneo sul deposito dei container del porto di Latakia, provocando ingenti danni materiali non lontano dall’area in cui sono di stanza soldati russi. Un’operazione simile si era già svolta il 7 dicembre, nello stesso porto, anche il quel caso senza proteste da parte di Mosca, nonostante gli accordi presi il 22 ottobre da Bennet e Putin sulla necessità di mantenere una comunicazione continua tra i rispettivi contingenti impegnati in Siria, per evitare scontri collaterali. In effetti, il 27 dicembre, il ministro israeliano Yair Lapid e il suo omologo russo Sergey Lavrov avevano avuto un lungo colloquio telefonico, ma nelle successive interviste separate, ciascuno aveva messo in evidenza, tra i temi affrontati, quelli più sensibili per la propria opinione pubblica: per Israele il nucleare iraniano e il peso dell’Iran in Siria, mentre per la Russia la colonizzazione israeliana in Cisgiordania e la questione della proprietà della chiesa ortodossa a Gerusalemme.
Continuare è potere
Dunque, attualmente la regione che si estende tra il Medio Oriente e il Golfo, già preda, dopo la fine della guerra fredda, delle ambizioni di potenze regionali come Israele, Arabia Saudita, Egitto, Iran e Turchia, è coinvolta nelle rivalità crescenti che oppongono le grandi potenze russa, statunitense e cinese. In tale contesto, le velleità di Tel Aviv, Riyadh, il Cairo, Tehran e Ankara rischiano di essere oggetto di strumentalizzazioni da parte dei tre antagonisti in corsa per la supremazia mondiale. Gli Usa per conservarla, Russia e Cina per conquistarla.