Come il nulla può resistere a quattro gradi di giudizio penale
Svolta verso il garantismo
Lo scorso 20 dicembre 2021 il quotidiano “La Repubblica” ha pubblicato un interessante articolo dell’ex deputato Luigi Manconi dal titolo “La perversa letteratura processuale nelle motivazioni della condanna di Mimmo Lucano”, avente ad oggetto un duro commento sulle motivazioni della sentenza emessa dal Tribunale di Locri a carico dell’ex sindaco di Riace recentemente condannato a 13 anni di galera per presunti fatti di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. A ben guardare, il contenuto dell’articolo in parola costituisce un precedente di stampa molto importante che potrebbe sancire una definitiva rottura nel modo di approcciare alle condanne dei giudici italiani da parte degli organi di informazione di sinistra, storicamente appiattiti alla prospettetazione accusatoria, poiché, secondo l’articolo di Manconi: “A leggere le 904 pagine di motivazione della sentenza di condanna nei confronti di Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, e dei suoi soci e collaboratori, c’è da trasecolare. Il testo e la sua scrittura costituiscono un documento chiarificatore su come NON si dovrebbe giudicare e sanzionare all’interno di uno stato di diritto. Un esempio di letteratura processuale perversa, dove abbondano i giudizi morali e quelli moralistici, le considerazioni politiche, le riflessioni sociologiche, le analisi di natura generale (proprio quando entra in vigore il decreto legislativo sulla presunzione d’innocenza)”. Mentre, così vogliono la Costituzione e la legge, una sentenza e le sue motivazioni dovrebbero fondarsi tutte sull’analisi delle prove e delle circostanze, destinate ad accertare la sussistenza di una fattispecie penale e individuarne il responsabile. Questo, al contrario, rappresenta una parte minore e, direi, poco significativa di quelle benedette 904 pagine”.
Un’opinione bipartisan
Quindi, anche se non sarebbe la sede più appropriata, in ogni caso la sentenza di primo grado con cui Mimmo Lucano è stato condannato a 13 anni di reclusione è stata letteralmente fatta a pezzi da un illuminato politico di sinistra ed è curioso constatare che un politico di sinistra – su un giornale di sinistra come “La Repubblica” – si trovi a criticare così duramente, nel merito, i motivi di condanna a carico di un politico di sinistra come Mimmo Lucano, anche e soprattutto perché negli ultimi anni sono stati prevalentemente i giornali con orientamento di centro destra ad attaccare i provvedimenti giudiziari. Questa significativa inversione di tendenza – non del tutto inedita ma mai così dura – non può non dipendere dal fatto che è opinione ormai “bipartisan” che gli errori giudiziari in questo paese sono diventati intollerabili ed è venuta meno quella presunzione assoluta di affidabilità che in passato ha sempre accompagnato le sentenze. Sebbene qualche addetto ai lavori faccia ancora finta di non averlo capito, la crisi del “pianeta giustizia” è molto grave – anche per via della totale delegittimazione dell’attuale CSM dovuta al “Palamaragate” – e per questo è apprezzabile che anche illustri esponenti della cultura di sinistra come Luigi Manconi esprimano perplessità nel merito dei motivi di condanna perché nell’ultimo ventennio troppe vite umane sono state rovinate da provvedimenti giudiziari caratterizzati da una totale mancanza di logicità e buon senso, del tutto inimmaginabile fino a qualche anno fa quando la giustizia era ancora una cosa seria. Meritoria, quindi, l’operazione ermeneutica di “La Repubblica” nel focalizzare l’attenzione proprio sul merito dei motivi di condanna, anche se la sentenza è ancora impugnabile nei successivi gradi di giudizio, che rimane la sede “critica” più appropriata nonostante la fiducia degli italiani nei confronti del processo penale sia ormai al minimo storico.
Le sentenze
In effetti, è amaro constatare che in Italia sono state registrate sentenze – addirittura – definitive che si reggono su motivazioni davvero farlocche adottate in palese violazione di legge, come accaduto qualche anno fa quando la giustizia italiana ha ingiustamente condannato ad una pena lieve un magistrato attraverso un tortuoso e contraddittorio iter processuale in cui i giudici di merito hanno incredibilmente omesso la doverosa verifica sull’attendibilità della vittima del reato che – secondo quanto prevede l’art 192 cpp – deve essere oggetto di una “valutazione particolarmente penetrante” da parte del giudice. Tale “penetrante valutazione” è stata omessa nonostante diversi giudiziosi magistrati in fase cautelare avessero bollato proprio la vittima come un soggetto estremamente ambiguo ed equivoco, adombrando addirittura il rischio di una possibile calunnia a carico dell’indagato e lo stesso aveva fatto il Procuratore Generale d’Appello che aveva brutalmente sconfessato l’operato del PM ritenendo la vittima poco credibile. La questione è delicata perché, come costantemente ribadito dalla corte di cassazione (ex pluris: Cass. n. 28837/2020; Cass., Sez. Un., n. 41461/2012), la verifica della credibilità soggettiva della persona offesa e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto deve essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni del semplice testimone, poiché la vittima è notoriamente portatrice di un personale interesse all’accertamento del fatto. Nonostante la mancanza di una congrua valutazione da parte del giudice d’appello, la corte di cassazione non ha preso atto dell’omissione valutativa che avrebbe quasi sicuramente comportato l’annullamento con rinvio degli atti per un nuovo esame sui profili di affidabilità della vittima, “dimenticandosi” di esaminare il relativo motivo di ricorso. Questa incresciosa situazione di reiterata illegalità riscontrata in sentenze che dovrebbero costituire – per definizione – la massima espressione della legalità ordinamentale, è stata rimarcata anche dal giudice straordinario di quarto grado adito ex art 625 bis cpp che ha sottolineato l’errore valutativo del giudice di terzo grado ed ha indicato al ricorrente la poco consolatoria possibilità di intraprendere il giudizio di revisione della condanna ex art 629 cpp, per cui la partita non è ancora chiusa. Appare, tuttavia, evidente che in Italia c’è il rischio di venire condannati senza che il doppio grado di merito abbia vagliato correttamente l’attendibilità della vittima e può accadere perfino che la corte di cassazione si “dimentichi” di trattare il motivo di ricorso che avrebbe annullato la statuizione di condanna, quindi, un autentico festival degli orrori che ha permesso ad una colossale calunnia di resistere a ben quattro gradi di giudizio. Ciò può accedere solo in un sistema giudiziario inaffidabile in cui alcuni magistrati, per oscure ragioni, rovinano la vita delle persone piuttosto che fare giustizia, ma per ironia della sorte possono dormire sonni tranquilli sostenendo di aver fatto solo il “loro dovere”, poiché l’attuale impianto normativo prevede che la valutazione del magistrato sia insindacabile nel “merito”, qualsiasi inesattezza scriva, anche manifestamente contraria agli elementi di prova agli atti. È questo il vulnus che ha permesso ai magistrati più ideologizzati di forzare il merito dei provvedimenti giudiziari condannando la gente oppure mettendola in galera troppo spesso senza prove, come dimostra il numero impressionante di oltre 30 mila errori giudiziari registrati in Italia dal 1991 al 2021. Ed è questo il punto dolente su cui bisogna intervenire normativamente per ricondurre alcuni giudici al posto che la costituzione gli assegna, senza debordare, perché condannare qualcuno in violazione delle regole procedurali non può mai essere una modalità con cui lo stato può fare giustizia ed assomiglia molto di più ad una forma di “corruzione intellettuale” che meriterebbe una sanzione penale proprio come il reato di corruzione materiale previsto dall’art. 318 cp. In proposito, sovviene un celebre insegnamento del grandissimo scrittore decadentista irlandese Oscar Wilde secondo cui “Molti giudici sono così fieri della loro incorruttibilità che dimenticano la giustizia”.
di Ferdinando Esposito