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Kazakistan: con il Caspio al collo

Dopo giorni di violenti scontri di piazza e le dimissioni del governo, le autorità kazake blindano il paese, mentre la...

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Dopo giorni di violenti scontri di piazza e le dimissioni del governo, le autorità kazake blindano il paese, mentre la Russia invia truppe per riportare stabilità; in piena crisi politico-economica, il Kazakistan, e il suo ricco sottosuolo, sono alla mercé delle potenze vicine (e non solo)

Dimissioni convulse

Malgrado le rassicurazioni del presidente kazako Kassym-Jomart Tokayev sulla stabilità ripristinata, non si fermano le proteste in Kazakistan. Dopo le dimissioni del governo guidato da Askar Mamin, nel tentativo di placare il dissenso esploso all’inizio del mese a seguito del brusco raddoppio del prezzo del gas di petrolio liquefatto (gpl), le autorità blindano il paese, imponendo dure restrizioni alla circolazione delle persone e alla rete Internet. Al posto di Mamin, come capo del governo ad interim, è stato nominato il primo vicepremier Alikhan Smailov, mentre i ministri resteranno in carica fino alla formazione di un nuovo esecutivo. Tokayev chiama in aiuto l’alleato russo e Mosca invia truppe di interposizione, puntando il dito contro un tentativo dall’estero «di usare gruppi di persone armate e addestrate per minacciare la sicurezza e l’integrità dello Stato». Tre città sono state maggiormente interessate dai disordini. In primo luogo, Almaty, città più popolosa, centro finanziario ed ex capitale del paese, dove la mattina del 5 gennaio un gruppo di manifestanti, armati di spranghe, ha occupato gli edifici del Comune e del governo regionale, rompendo lo sbarramento della polizia che aveva cercato di respingerli con lacrimogeni e granate stordenti. Sfidato, dunque, lo stato di emergenza proclamato da Tokayev dal 5 al 19 gennaio, nelle regioni dell’Almaty (di cui l’omonima città non fa parte dal punto di vista amministrativo), al confine con Cina e Kirghizistan, e del Mangystau, sul Mar Caspio. Qui, il 2 gennaio, erano iniziate le proteste, in particolare ad Aktau e nel centro petrolifero di Zhanaozen (dove l’ufficio del sindaco, un albergo e diversi veicoli parcheggiati sono stati incendiati). Il provvedimento include il coprifuoco notturno, il divieto di assembramento, il sequestro di armi «a individui ed enti» e dure restrizioni alla circolazione in prossimità dei centri urbani. La stessa misura è stata imposta nella capitale Nur-Sultan, dove, inoltre, le forze armate hanno prontamente interdetto l’accesso all’area dell’aeroporto, pur senza bloccarne l’attività. Terza città ad aver registrato scontri è Aktobe, dove, secondo media locali, l’edificio del comune è stato occupato dai manifestanti senza alcuna resistenza delle forze dell’ordine, che si sono schierate con loro, dicendo di essere «dalla parte della gente». Gli edifici governativi sono stati presi di mira anche nelle città meridionali di Shymkent e Taraz.

Ricco di materie prime, povero di autonomia strategica

In un tweet, Tokayev ha definito gli ispiratori della protesta come «individui distruttivi, che hanno l’obiettivo di mettere in pericolo la stabilità e l’unità della società», facendo eco alle accuse pronunciate contro i provocatori interni ed esterni al paese. Nondimeno, di fronte al perdurare delle violente proteste, ha annunciato pubblicamente una riunione del governo per discutere della grave crisi economica e sociale, della quale ha accusato il governo e le compagnie KazMunayGas e KazakhGas, responsabili dell’aumento del prezzo del gpl. Incremento annunciato alla fine di dicembre dalle autorità, ma che ha messo in ginocchio l’economia del paese, in particolare delle province occidentali, dove negli ultimi anni le automobili erano state convertite in massa all’alimentazione a gpl, perché più economica rispetto a quella a benzina. Il governo kazako, quindi, dopo aver promesso di prendere in considerazione le richieste «socio-economiche» dei manifestanti, ha dichiarato che nella regione del Mangystau il costo del gpl sarebbe stato riportato ai livelli del 2021, anche se ciò non è bastato a fermare le proteste. Come non sono state sufficienti gli appelli di Tokayev alla responsabilità e al dialogo, in un paese ricco ma dilaniato dalle diseguaglianze. Secondo maggior produttore di petrolio, dopo la Russia, nella Comunità di Stati indipendenti (CSI), il Kazakistan ne esporta la maggior parte, contando tra i principali acquirenti i paesi del vecchio continente, Francia in primis. Inoltre, il paese produce oltre 50 miliardi di metri cubi annui di gas naturale, ma il fatto che questo si estragga quasi sempre mescolato al petrolio, rende vantaggioso reiniettarlo nel sottosuolo per conservare la pressione utile all’estrazione dell’oro nero. La produzione di gas dà impulso anche all’industria petrolchimica, oltre a esaudire il fabbisogno di energia per uso domestico. Nur-Sultan, che vanta di custodire nel suo sottosuolo 99 su 100 degli elementi della tavola periodica, è anche il secondo paese al mondo più ricco di uranio, di cui fornisce circa il 40% della produzione mondiale. Tanto ricco, quindi, quanto preda delle mire delle potenze esterne, laddove gli Stati Uniti sono i primi investitori, l’Europa è il primo acquirente di petrolio, la Turchia è il riferimento storico-culturale (il Kazakhstan è membro del Consiglio di cooperazione degli Stati turcofoni), la Russia è il primo partner nella difesa, mentre la Cina ne ha fatto uno dei territori più integrati nelle nuove vie della seta.

(In)diretti interessati

Tutte queste potenze, medie o mondiali, seguono gli sviluppi della situazione, temendo che un terremoto politico possa turbare gli equilibri geopolitici, già complessi e delicati, dell’Asia centrale. Le ultime proteste, infatti, sono scoppiate in un momento in cui le previsioni economiche per l’anno in corso erano floride, dopo l’ultimo vertice tra Mamin e il suo omologo russo Mikhail Mishustin, conclusosi con la stipula di un accordo per la costruzione, con finanziamenti russi, di autostrade, di altri corridoi energetici verso la Cina e l’Europa e di infrastrutture di produzione e commercializzazione di gas naturale compresso (cng). Pechino, peraltro è diventata un partner di primo piano per Nur-Sultan, detenendo il 24% delle partecipazioni nel settore petrolifero e il 13% in quello del gas. Significativa, inoltre, è la recente costruzione di cinque dighe nella regione di Almaty, per quello che è considerato il più imponente progetto idroelettrico cinese in Asia centrale. A proposito di elettricità, negli ultimi mesi il Kazakistan ha avuto gravi difficoltà a far fronte al fabbisogno di energia elettrica per la produzione di criptovalute, soprattutto dopo e restrizioni imposte dalle autorità alla Rete. Infatti, dopo che la Cina ne aveva bloccato il mining, i minatori cinesi si erano trasferiti nel vicino territorio kazako, ma la loro attività ha causato continui blackout. Una ragione in più, per il governo, di considerare il nucleare come una soluzione proficua anche per uscire dalla dipendenza dal carbone. La prima centrale nucleare del paese dovrebbe essere quindi costruita a Ulken o a Kurchatov, mentre per il finanziamento, finora si sono proposti cinesi e russi. Se in questi giorni il ministero degli Esteri russo monitora attentamente l’attuale situazione politica kazaka, ad Ankara sono parimenti interessati alla stabilità nel paese, che, malgrado la riduzione delle importazioni di petrolio registrata a fine 2021, resta sempre fondamentale anche per la profondità strategica turca. La causa immediata dell’impennata dei prezzi del gpl è la transizione decisa dal governo verso il mercato libero del carburante, associata a quella verso il commercio elettronico del gpl. Ma il principale punto debole di Nur-Sultan è l’impossibilità di essere artefice del proprio destino socio-politico.

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