Emirati arabi uniti: attacco alla coalizione

I ribelli yemeniti Houthi hanno rivendicato gli attacchi condotti per mezzo di droni; la Coalizione a guida saudita, di cui gli Eau fanno parte, lancia una rappresaglia a Sanaa, mentre dalla comunità internazionale, Usa e Russia in primis, arrivano ad Abu Dhabi numerosi messaggi di solidarietà; l’imbarazzo di Pechino e le ripercussioni sui colloqui sul programma nucleare iraniano

Il diritto di rappresaglia degli Emirati arabi

La mattina del 18 gennaio, la Coalizione militare guidada da Riyadh ha sferrato un bombardamento aereo, nei dintorni della capitale yemenita Sanaa, nel quale, stando a un bilancio preliminare, sarebbero morte almeno 14 persone. Secondo il ministro degli Esteri emiratino, si è trattato di un’applicazione del «diritto di rappresaglia» nei confronti di «atti terroristici» compiuti dalla «milizia terrorista degli Houthis», che persegue i suoi obiettivi illegali seminando il caos nella regione. Infatti, secondo fonti locali, sono state colpite l’abitazione di un ex ufficiale yemenita e le zone di al-Rawda, vicina all’accademia militare, e di al-Sitteen, presso il ministero degli Esteri, tutti obiettivi ricondotti dalla Coalizione al gruppo yemenita ribelle degli Houthis, altrimenti noto come Ansar Allah. È stata l’operazione più sanguinosa nella capitale yemenita dal 2019, lanciata dalla Coalizione in risposta agli attacchi che la mattina precedente avevano provocato l’esplosione di tre petroliere nei pressi della raffineria di Mussafah, in un’area vicina ai serbatoi di stoccaggio della compagnia petrolifera emiratina Adnoc, oltre a una quarta esplosione, di entità minore, in una zona in costruzione, vicina all’aeroporto internazionale di Abu Dhabi. Tre erano state le vittime, tutti lavoratori, di cui un pakistano e due indiani, le cui salme saranno rimpatriate al più presto. Mentre le indagini delle autorità emiratine sulle cause delle esplosioni avevano subito portato al ritrovamento di «piccoli oggetti volanti», verosimilmente componenti di droni, nella serata del 17 gennaio, il portavoce militare degli Houthis, Yahya Sareea, aveva esplicitamente rivendicato un’operazione «vittoriosa» contro gli Emirati arabi uniti, denominata Uragano dello Yemen, volta a indurre la Coalizione a porre fine al conflitto yemenita. Tra gli obiettivi indicati da Sareea, figuravano, inoltre, gli aeroporti di Dubai e Abu Dhabi.

Reazioni internazionali

Tanto ferme quanto immediate, da parte di gran parte delle cancellerie della comunità internazionale, sono state sia le espressioni di condanna degli attacchi Houthis, sia le manifestazioni di solidarietà nei confronti degli Emirati. A partire da quelle dei paesi della Coalizione, che hanno inoltre riferito di aver intercettato, lo stesso 17 gennaio, otto droni diretti contro il territorio saudita. Arabia Saudita, Bahrein e Kuwait, inoltre, offrendo ad Abu Dhabi il loro sostegno immediato, hanno lanciato l’allarme sul pericolo che gli Houthis rappresentano, per la stabilità e la sicurezza regionali, e globali. Dal canto suo, il segretario generale dell’Organizzazione delle nazioni unite (Onu), Antonio Guterres, come, prima di lui, il ministro degli Esteri emiratino, ha sottolineato che colpire civili o infrastrutture di interesse civile è proibito dal diritto umanitario internazionale e, attraverso il suo portavoce, ha chiesto al gruppo sciita di evitare un inasprimento del conflitto. Dura la condanna degli attacchi Houthis, anche da parte del segretario di Stato Usa Antony Blinken, che ha immediatamente telefonato al suo omologo emiratino, da cui avrebbe ricevuto la richiesta di inserire di nuovo la milizia sciita nella lista delle organizzazioni terroristiche. Ad espungere il nome degli Houthis da quella lista, era stata, nel febbraio 2021, l’amministrazione del presidente statunitense Joe Biden, in un segnale di discontinuità rispetto al suo predecessore, Donald Trump, che, di contro, aveva adottato nei confronti dell’Iran e dei suoi satelliti sparsi per il Medio Oriente la politica della massima pressione. Dura anche la reazione della Russia, che, peraltro, ha definito «particolarmente scandalosa» la scelta di Abu Dhabi come obiettivo degli attacchi Houthis, invitando il gruppo ribelle a evitare simili azioni e dicendosi disposta a collaborare per la riconciliazione in Yemen, con ogni mezzo necessario. Anche le cancellerie di Francia, Regno Unito e Israele hanno condannato fermamente le ultime azioni degli Houthis.

Guerra senza fine

Gruppo sciita di scuola zaydita, diversa dunque dallo sciismo duodecimano, o jafarita, maggioritario in paesi come Iran, Iraq, Azerbaigian e Bahrein, oltre che tra le comunità musulmane libanesi, gli Houthis fanno parte di quella galassia di movimenti, di cui fa parte anche il libanese Hizbullah, sostenuti da Tehran per colpire i propri rivali geopolitici regionali, Arabia saudita ed Emirati arabi uniti in testa. Pertanto, la conquista di Sanaa da parte degli Houthis, nel settembre 2014, cui è seguita la deposizione dell’allora presidente yemenita Abdorabbouh Mansour Hadi, ha suscitato, soprattutto a Riyadh e Abu Dhabi, il timore di un aumento del peso geopolitico dell’Iran. Pertanto, il Consiglio di cooperazione del Golfo (con l’eccezione dell’Oman) ha messo in piedi una coalizione militare composta, oltre che dai contingenti di Arabia saudita, Emirati arabi uniti, Bahrein, Kuwait e Qatar, anche dai militari inviati in loro sostegno da Egitto, Sudan, Giordania, Marocco e Senegal. Un’alleanza che, con il sostegno di Usa e Regno unito, ha lanciato in Yemen due operazioni militari, la prima nel 2015, chiamata Decisive storm, mentre la seconda, detta Restoring hope, iniziata nello stesso anno, è ancora in corso. Le operazioni della Coalizione, inoltre, sono supportate da movimenti yemeniti antagonisti agli Houthis, come il Movimento per il Sud o il partito islamico sunnita al-Islah.

Echi internazionali

A differenza dell’Arabia Saudita, che confina con lo Yemen e in passato ha avuto non poche difficoltà con la sua minoranza sciita interna, gli Emirati arabi uniti hanno sempre evitato di impegnarsi in prima linea nel conflitto contro gli Houthis. Guidata, di fatto, dal suo principe ereditario ed ex ministro della Difesa Mohamed bin Zayed, Abu Dhabi, negli ultimi anni, ha tentato di tessere una rete di relazioni che, da un lato hanno inserito gli Emirati negli equilibri geopolitici regionali (in precedenza, nel Golfo, la preminenza assoluta spettava all’Arabia Saudita), dall’altro hanno garantito loro un relativo margine di manovra in Medio Oriente. Alleati storici degli Usa e avversari dei movimenti legati all’islam politico e ai Fratelli musulmani, sostenuti invece dalla Turchia, gli Emirati hanno nel tempo costruito un variegato sistema di alleanze che, oggi, include anche la Cina. Pechino, tuttavia, ha recentemente siglato con l’Iran un accordo di partenariato strategico, che dovrebbe essere applicato già da quest’anno e sostiene il dialogo con la Repubblica islamica. Parallelamente, ha ricevuto, a partire dall’11 gennaio, i ministri degli Esteri dei paesi del Golfo, oltre che di Iran e Turchia, il che spiega l’imbarazzo cinese di fronte agli ultimi attacchi degli Houthis contro Abu Dhabi. Una vicenda, che, oltre a rischiare di sprofondare la regione in un conflitto senza fine, rischia di ripercuotersi negativamente sui colloqui del programma nucleare iraniano.

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