Il 26 gennaio 1998 scompare il pittore Mario Schifano nel centro di rianimazione dell’ospedale Santo Spirito di Roma, a causa di un infarto. Non ha ancora 64 anni compiuti. Artista disallineato da qualsiasi convenzione, fuori da ogni schema e protagonista di una vita dissoluta, è sicuramente tra i pittori italiani più conosciuti dell’ultimo decennio del XX secolo, oltre che il più maledetto e il più prolifico.
La Pop Art made in Italy
È l’emblema della Pop Art italiana ed europea ma, paradossalmente, quando negli anni sessanta si reca negli Stati Uniti, l’esperienza non ha la rilevanza che l’artista si sarebbe aspettato. I potenti galleristi americani vogliono che la Pop Art rimanga figlia esclusiva della cultura a stelle e strisce.
Nato in Libia il 20 settembre 1934, si accosta all’arte grazie al lavoro del padre, che è un archeologo. La sua attività si sviluppa a Roma e la sua opera è caratterizzata da una personale rivisitazione della civiltà contemporanea delle immagini che ha inizio negli anni 60 attraverso pannelli monocromi realizzati su carta da imballaggio. Nel 1964 è invitato per la prima volta alla Biennale di Venezia. Tra il 65 e il 67 rivisita in chiave pop l’arte futurista, mediante la sovrapposizione di pannelli in plexiglas su una serie di fotografie storiche, dando vita con rivisitazioni irriverenti dei lavori di Filippo Tommaso Marinetti e Giacomo Balla al suo Futurismo rivisitato. Negli anni a seguire realizza opere con la macchina fotografica polaroid e si dedica anche alla realizzazione di pellicole cinematografiche. In un viaggio a Londra ha una relazione con la musa di Mich Jagger, Marianne Faithfull.
I Rolling Stones scrivono una canzone dedicata a Mario Schifano, Monkey Man.
Eccessi, vita sregolata e uso di sostanze stupefacenti lo portano a finire in prigione più di una volta. Frequentatore di ambienti letterari e culturali dell’epoca, conosce e stringe legami con innumerevoli artisti della sua epoca, tra cui Renato Guttuso, Marcel Duchamp, Andy Warhol, è amato da Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Giuseppe Ungaretti, ha con essi una profonda amicizia e frequentano abitualmente insieme il caffè Rosati in piazza del Popolo a Roma.
L’esperienza cinematografica
Schifano si accosta al cinema con lo stesso approccio che ha nella pittura: con istintività e gestualità, in una visione rapida e oggettiva del mondo che lo circonda ma che al tempo stesso è accuratamente pensata, procedendo per accumulo, per stratificazione di segni e suoni. Capolavoro assoluto del cinema sperimentale, il suo film Umano, non umano, parte di un’opera sotto forma di trilogia insieme a Satellite e Trapianto, consunzione, morte di Franco Brocani, esce nel 1969 e partecipa alla XXX edizione della Mostra d’arte cinematografica di Venezia.
Un battito cardiaco unisce le diverse immagini in cui un uomo all’interno di una sala cinematografica, dopo una sequenza di un film di Godard, frantuma lo schermo fino a ridurlo a pezzi. Nel cast d’eccezione di questo film imperdibile, troviamo Carmelo Bene, Mick Jagger, Alberto Moravia, Sandro Penna, Keith Richard.
L’ultimo Schifano
Nell’ultima stagione di Schifano riaffiora una grande tenerezza, che non viene scalfita neanche dai fatti più dolorosi della sua vita.
Vive con almeno una televisione sempre accesa di cui ne fotografa le immagini, come se avesse il desiderio di non farsi sfuggire gli attimi di vita che scappano implacabilmente. Ritorna nella sua pittura l’immagine di quel paradiso della sua infanzia, la Libia, con le spiagge, le palme, un cielo illuminato da un sole sfavillante. Un pittore che vive nel presente e nel futuro, il cui trait d’union, il punto di raccordo, tra la generazione di suo padre e quella del suo adorato figlio è proprio la pittura, come inestinguibile atto d’amore. Quando gli hanno chiesto perché dipingesse, Schifano ha risposto con la frase più bella che mai possa uscire dalla bocca di un artista: «Perché è umano, troppo umano».