La repressione del dissenso interno non frena la caduta di consensi registrata dal presidente Erdoğan e dal suo partito; la via d’uscita sembra, per ora, l’ascesa geopolitica, con il Mar Nero come moneta di scambio e l’industria della Difesa come settore trainante
Repressione interna
Il 25 gennaio, la Corte europea per i diritti dell’uomo (Cedh) ha condannato la Turchia per l’arresto e la detenzione di Deniz Yücel, corrispondente del quotidiano tedesco Die Welt, di cui ha violato i diritti alla libertà e alla sicurezza personali, alla libertà di espressione e all’indennizzo in caso di abusi. Per questo, come si legge in un comunicato diffuso dalla Cedh, Ankara dovrà versare un risarcimento di 13.300 euro al giornalista turco-tedesco, che nel 2016 seguiva le intricate vicende successive al tentato colpo di stato del luglio di quell’anno. La sua detenzione provvisoria, infatti, non era giustificata da «ragioni plausibili», mentre privandolo della libertà le autorità turche hanno «interferito» nell’esercizio della libertà di espressione. In tal modo, inoltre, il governo turco ha intimidito la società civile, in particolare le voci di dissenso. Nessun riferimento, invece, al recente arresto della giornalista televisiva turca, Sedef Kabas, ora in carcere in attesa di essere processata per aver «insultato» il presidente Recep Tayyip Erdoğan: durante un programma trasmesso dal canale privato Tele1, ha riferito un proverbio turco, secondo cui «la testa coronata diventa più saggia», per poi commentare che, tuttavia, «il bue non diventa re entrando nel palazzo, ma il palazzo diventa una stalla». Secondo le stime del sito di informazione turco finanziato dall’Unione europea (Ue) Expression Interrupted, sono 58 i giornalisti attualmente in carcere. Accanto alla gestione dei flussi migratori, e forse in misura maggiore, la repressione del dissenso interno getta ombra sull’immagine internazionale della Turchia.
Sull’orlo del collasso finanziario
Tuttavia, l’attenzione di Erdoğan per il prestigio geopolitico non frena l’aumento del malcontento interno causato dalla grave crisi economico-finanziaria e dal conseguente drastico impoverimento della classe media, bacino elettorale prediletto del presidente e del suo partito, Giustizia e sviluppo (Akp). L’inflazione, che alla fine del 2021 si attestava sul 36,1% su base annua, il crollo della lira, che lo scorso anno ha perso il 43% del suo valore rispetto al dollaro, l’aumento vertiginoso della spesa pubblica per attutire l’impatto dell’emergenza sanitaria (nell’economia turca, il turismo era uno dei settori trainanti) e per far fronte ai rincari del gas, un disavanzo pubblico pari a 10,84 milioni di dollari: la politica espansiva imposta da Erdoğan, che ha incoraggiato la svalutazione della lira per favorire esportazioni e investimenti, non ha prodotto conseguenze significative. Per ora la banca centrale turca ha fissato il tasso di interesse di riferimento al 14%, non prevedendo ulteriori tagli, a causa dei «rischi geopolitici crescenti», in riferimento al costo del gas, il cui aumento è una delle ripercussioni della crisi russo-ucraina. Della crisi finanziaria, Erdoğan parla come di una «guerra di indipendenza economica» della Turchia contro le «forze globali» che manipolano il tasso di cambio della valuta locale. Anche per questo, il 20 gennaio Ankara ha invitato il presidente di El Salvador, Nayib Bukele, il primo ad aver eretto la criptovaluta Bitcoin a moneta legale, suscitando la contrarietà del Fondo monetario internazionale (Fmi). Secondo il comunicato stampa relativo all’incontro tra i due presidenti, l’intensificazione delle relazioni bilaterali è stato l’argomento principale dei colloqui, che si sono conclusi con la firma di sei accordi, in settori strategici quali la finanza, il commercio, la Difesa, la diplomazia e l’istruzione. Contestualmente, i ministri degli Esteri dei due paesi hanno inaugurato l’ambasciata di El Salvador ad Ankara.
Una potenza multidimensionale
Il ministro degli Esteri turco Mevlut Çavuşoğlu ha definito la politica estera di Ankara come multidimensionale, perché permette di dialogare contemporaneamente «con l’Oriente e con l’Occidente». Tra le priorità della Turchia per quest’anno c’è, infatti, anzitutto quella di ritagliarsi un ruolo geopolitico di prestigio, migliorando le proprie relazioni con i rivali geopolitici storici, primi tra tutti Israele e le monarchie del Golfo. La telefonata del 20 gennaio tra i due ministri degli Esteri israeliano e turco è stato il primo colloquio diretto da 13 anni, preceduto da messaggi di distensione rivolti da Erdoğan a Tel Aviv. Inoltre, dopo che gli Usa hanno negato il loro sostegno alla Turchia per la costruzione di un gasdotto che dovrebbe portare il gas israeliano in Europa, attraverso Cipro e Grecia, Ankara vorrebbe ora discutere con Israele un progetto alternativo. Forse, anche a costo di ridurre l’impegno per la causa palestinese, spesso utilizzato da Erdoğan per presentarsi come punto di riferimento per i movimenti ispirati ai Fratelli musulmani (come quello palestinese di Hamas). Così, la Turchia cerca la distensione e la cooperazione anche con le monarchie del Golfo, in particolare con gli Emirati arabi uniti, la cui banca centrale, lo scorso 19 gennaio, ha siglato con l’omologa banca turca un accordo di scambio di valute della durata di tre anni. Frattanto, la Sublime porta non rinuncia alle sue tradizionali sfere di influenza, tra Balcani e Asia centrale. Non a caso, quest’anno la meta della prima visita di Erdoğan, in compagnia di una delegazione di ministri, è stata l’Albania. Un evento segnato dall’inaugurazione di una moschea storica di Tirana, restaurata con fondi turchi, e di un complesso residenziale a Laç, costruito grazie agli investimenti successivi al terremoto che aveva colpito l’Albania centrale nel 2019. Al termine degli incontri, i due paesi hanno firmato sette accordi, che coinvolgono cultura, mezzi di informazione, gestione delle emergenze e delle catastrofi naturali, lo sport e la sicurezza.
Tra militarismo e proiezione di potenza
Tra gli obiettivi della cooperazione turco-albanese, Erdoğan ha indicato la stabilità, la pace e lo sviluppo nei Balcani, gli stessi argomenti sui quali si fondano i partenariati di Ankara con gli stati turcofoni dell’Asia centrale. Inoltre, la Turchia intende fare dell’Albania un importante punto di riferimento strategico-militare all’interno dell’Organizzazione del trattato dell’Atlantico Nord (Nato). Con Tirana, infatti, Ankara a firmato ad aprile 2019 un importante accordo di cooperazione militare, accompagnato da un protocollo di assistenza finanziaria per l’ammodernamento delle forze armate albanesi. Altro progetto costoso, per il quale i petrodollari delle monarchie del Golfo potrebbero essere di vitale importanza, anche oltre il sostegno che finora è stato garantito alla Turchia dal Qatar. Intanto, la Turchia cerca di affermare un ruolo di rilievo nel Mediterraneo, puntanto sui legami economici e geo-strategici con Cipro, dove alle ultime elezioni si è affermato il partito più vicino alla Turchia, e con la Siria, sostenendo gruppi islamici sunniti locali e concordando il processo di pace con Iran e Russia. Al contempo, Ankara cerca di rafforzare i propri legami con il Maghreb, servendosi soprattutto dello strumento delle relazioni bilaterali, oppure, in Libia, intervenendo direttamente a sostegno di una delle parti impegnate nel conflitto. Ma gli ultimi sviluppi delle tensioni russo-ucraine, dove si manifesta la crescente rivalità russo-statunitense, hanno indotto la Turchia a tenere sotto controllo il Mar Nero. Tra Mosca e Kiev, Ankara si è già più volte proposta come mediatrice, avendo pianificato, tra gennaio e febbraio 2022, una visita ufficiale di Erdoğan in Ucraina e un colloquio, di persona o telefonico, tra i presidenti turco e russo. Inoltre, il 19 gennaio, il portavoce della presidenza della Repubblica turca Ibrahim Kalın ha invitato ad Ankara i presidenti russo e ucraino.
Mar Nero: specchio, specchio delle mie brame…
Ma a Kiev la Turchia vende droni dal 2019, mentre a novembre 2020 la compagnia turca Baykar Makina (che produce droni Bayraktar) ha costituito una join venture con l’azienda ucraina Ukrspetsexport, inaugurandone la produzione in Ucraina. Le due società avevano già creato Black Sea Shield, per fabbricare droni e potenziare le industrie aerospaziali dei due paesi. Un eventuale ruolo di Ankara come mediatore tra Mosca e Kiev potrebbe dunque essere visto con sospetto dal Cremlino, a causa delle crescenti relazioni tra Turchia e Ucraina, che come la Russia si affacciano sul Mar Nero. Tanto più che la Turchia ha recentemente progettato di costruire un nuovo canale nel Bosforo, al di fuori degli accordi di Montreux del 1936, riservandosi quindi la possibilità di accordare permessi a navi militari di paesi terzi, stabilendo il loro tempo massimo di permanenza nel Mar Nero. Di conseguenza, il controllo effettivo di questo specchio d’acqua potrebbe essere utilizzato da Erdoğan come merce di scambio per accrescere il proprio ascendente su territori, come i Balcani, l’Asia centrale, il Mar Nero o il Mediterraneo, che si trovano alla convergenza degli interessi geo-strategici delle tre potenze russa, cinese e statunitense. Come membro della Nato, la Turchia potrebbe, in altri termini, accettare che Washington le affidi il ruolo che le aveva ritagliato negli anni ‘90 del secolo scorso, a patto che le sia concesso di conservare ed espandere la propria sfera di influenza, all’interno della quale potrà promuovere la propria industria della Difesa. È del 25 gennaio il primo contratto di esportazione siglato dalla Istanbul Defense ad Aerospace Cluster Association e dalla società privata Bayraktar, che produce droni d’avanguardia. Altri progetti importanti riguardano veicoli terrestri senza pilota, nuovi modelli di velivoli a guida remota da utilizzare in operazioni navali e Hürjet, jet da addestramento e da attacco leggero. Quest’ultimo sarà svelato nei prossimi mesi, ma la Turchia già pensa di classificare la propria industria militare tra le prime dieci del mondo.