I mezzi di informazione di gran parte dei paesi del mondo hanno ricominciato a parlare della guerra che dal 2014 infuria in Yemen; Washington blandisce gli alleati del Golfo promettendo sostegno alla Coalizione a guida saudita; l’entrata in scena di Israele e della Turchia
Golfo-Egitto-Israele: triangolo anti-iraniano (e anti-turco)
Il 26 gennaio, il presidente egiziano Abd al-Fattah al-Sisi è giunto ad Abu Dhabi, dove ha discusso con il ministro della Difesa emiratino e principe ereditario Mohammed bin Zayed al-Nahyan sugli ultimi sviluppi delle intricate vicende regionali. L’obiettivo principale della visita è intensificare la cooperazione tra l’Egitto e gli Emirati arabi uniti (Eau), come le circostanze attuali richiedono per contrastare i «tentativi di destabilizzazione» ai danni paesi arabi. In questi termini, al-Sisi ha definito gli attacchi dei ribelli sciiti yemeniti Houthis del 17 e del 24 gennaio, in riferimento al sostegno di cui essi godono da parte dell’Iran, storico rivale geopolitico regionale sia degli Eau, sia dell’Egitto. Entrambi, infatti, contano piuttosto su un’alleanza tattica, in particolare nei settori del commercio e dei sistemi di spionaggio informatici, tra il Cairo, le monarchie del Golfo e Israele, con una duplice finalità: anzitutto, arginare la capacità di proiezione di Tehran in Medio Oriente, soprattutto lungo la cosiddetta mezzaluna sciita, costituita da Iraq, Siria e Libano, dove la Repubblica islamica può contare su forze politiche alleate; in secondo luogo, limitare le velleità della Turchia di espandere la propria influenza sulla galassia di movimenti sunniti ispirati all’islam politico, dai Fratelli musulmani a gruppi più vicini ai cartelli del jihad dell’autoproclamatosi Stato islamico (altrimenti noto come Daech, Isis o Is). Quanto a Tel Aviv, cresce l’attesa per la storica visita del presidente israeliano Isaac Herzog negli Emirati, prevista per la fine di gennaio. Si tratta della prima visita di un rappresentante delle istituzioni israeliane nell’emirato, preceduta dal primo viaggio diplomatico di un primo ministro, Naftali Bennet, ad Abu Dhabi, avvenuta lo scorso 13 dicembre. L’instaurazione di relazioni diplomatiche, economiche e militari tra Eau e Israele si inscrive nel quadro dei cosiddetti accordi di Abramo, promossi dall’amministrazione statunitense dell’ex presidente Donald Trump e dal suo consigliere per la politica mediorientale, Jared Kushner, come parte della politica di massima pressione nei confronti dell’Iran.
Riyadh e Abu Dhabi: un’alternativa?
Intanto, continuano i raid dell’aviazione della Coalizione militare a guida saudita sui territori yemeniti sotto il controllo degli Houthis. A differenza di Riyadh, Abu Dhabi preme per una soluzione rapida e diplomatica della guerra in Yemen, preferisce sostenere milizie e movimenti locali, come le brigate dei Giganti o il Movimento per il Sud, piuttosto che impegnarsi in prima linea, e non esclude a priori un confronto con l’Iran, con cui, al contrario, alla fine del 2021, aveva avviato un dialogo pragmatico. Il 6 dicembre, il consigliere per la sicurezza nazionale emiratino Tahnoon bin Zayed al-Nahyan si era recato in Iran per la prima visita ufficiale dopo l’interruzione delle relazioni diplomatiche nel 2016. Con il suo omologo iraniano, Ali Shamkhani, quindi con il presidente della Repubblica islamica Ebrahim Raisi, sheikh Tahnoon aveva parlato di favorire scambi economici e commerciali, aprendo una nuova fase nelle relazioni bilaterali. In realtà, già negli ultimi tre anni, visite di funzionari emiratini, segrete e pubblicamente annunciate, avevano reso la rottura di Abu Dhabi con Tehran meno drastica di quella di Riyadh. Gli Eau potrebbero, dunque, prendere il posto del vicino saudita come principale alleato di riferimento di Washington nel Golfo, portando avanti, Israele permettendo, una visione meno conflittuale degli equilibri geopolitici mediorientali. Un cambiamento di rotta, che, peraltro, potrebbe favorire il buon esito dei negoziati tra le cancellerie occidentali e l’Iran sul programma nucleare di quest’ultimo. Gli Usa, intanto, continuano a inviare aiuti militari alla Coalizione a guida saudita, temendo che gli attacchi Houthis contro gli Eau possano essere una conseguenza degli accordi di Abramo e che la guerra in Yemen diventi una guerra per procura non tanto tra Iran e monarchie del Golfo (Arabia saudita in testa), quanto tra Iran e Israele. Una simile evoluzione, a sua volta, rischierebbe di favorire un altro attore regionale, la Turchia, che ultimamente ha avviato una distensione sia con i paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo, sia con Israele, nella prospettiva pragmatica (neo-ottomana) di zero problemi con i vicini.
Gli Houthis e l’unificazione mancata
Eppure, originariamente il movimento ora conosciuto come Houthis, altrimenti noto come Ansar Allah, era nato nel 1992, con il nome di Gioventù credente (Believing Youth), ad opera di Hussein Badr al-Din al-Houthi, nel governatorato settentrionale di Saada, dove era maggiormente concentrato il malcontento tra la popolazione sciita (lo sciismo yemenita è di scuola zaydita, diversa da quella duodecimana maggioritaria in Iran) nei confronti del neonato governo centrale di Sanaa. L’unificazione dello Yemen, infatti, avvenuta nel 1990 dopo l’implosione del sistema sovietico, nella cui orbita gravitava la Repubblica democratica popolare dello Yemen (il Sud del paese), aveva consolidato il potere dell’allora presidente Ali Abd Allah Saleh, che dal 1978 era stato a capo della Repubblica araba dello Yemen. La stessa instaurazione di quest’ultima, nel 1962, nel solco del nazionalismo arabo ispirato dal presidente egiziano Gamal Abd al-Nasser, aveva spazzato via il regno Mutawakkilita, fondato dall’imam sciita Yahya Mohammed Hamid al-Din sulle ceneri dell’impero ottomano. Per gli sciiti yemeniti, la fase dell’imamato rappresenta il momento della conquista dell’indipendenza da parte delle tribù delle regioni settentrionali: un’autonomia persa prima nel 1962, malgrado il sostegno della monarchia saudita, di fronte alle forze repubblicane e nazionaliste sostenute da Egitto e Siria, poi nel 1990, con l’unificazione nazionale. La Gioventù credente, dunque, nacque come movimento islamico moderato, che si contrapponeva alla diffusione crescente dell’islam sunnita radicale di matrice wahhabita, caldeggiata invece da Riyadh, nel timore che un aumento del peso politico della componente sciita yemenita potesse dare slancio alle rivendicazioni della minoranza sciita saudita. Quest’ultima, infatti, di scuola duodecimana, che secondo il periodico statunitense Foreign Policy gode solo in parte dei diritti degli altri cittadini del regno, ha dato vita in passato a diverse proteste, tutte represse duramente. Un esponente di spicco, tra gli sciiti sauditi, è l’ayatollah sciita Nimr al-Nimr, arrestato nel 2012, poi condannato a morte per incitazione all’odio, ricerca dell’ingerenza straniera e uso di armi contro le forze dell’ordine, e infine giustiziato nel 2016 assieme a 47 persone condannate per terrorismo.
Divisioni politiche e alleanze tribali
Le divisioni politiche e religiose interne allo Yemen corrispondono, a grandi linee, con i sistemi di alleanze tribali, che caratterizzano in misura maggiore le regioni settentrionali, ma conservano una certa vitalità nelle province meridionali. Ad esempio, la tribù di Houth, da cui provengono i fondatori di Ansar Allah, è un ramo di quella dei Banu Hamdan, la cui presenza è attestata in Yemen già dalle iscrizioni sabee. Tuttavia, la maggioranza degli sciiti del Nord si riconoscono come discendenti della confederazione tribale degli Adnaniti, originaria del Hijaz. Sono dunque gli arabi settentrionali, contrapposti agli arabi meridionali della confederazione tribale dei Qahtaniti, in cui riconosce i propri progenitori la maggioranza delle tribù sunnite del Sud. Lo Yemen meridionale, peraltro, ha vissuto fenomeni insurrezionali di portata analoga a quelli portati avanti dagli Houthis e all’incirca negli stessi anni. Come gli Ansar Allah, infatti, il Movimento per il Sud, separatista e di vaga ispirazione socialista, è nato negli anni ‘90, si era ribellato al governo di Sanaa nel 1994 (inizialmente con il sostegno saudita, perso dopo la sconfitta nella breve ma sanguinosa guerra civile di quell’anno), per poi trovare nuovo slancio nei primi anni Duemila. Nel 2007, infatti, si era schierato con i pensionati che reclamavano, dopo anni di sospensione, i pagamenti delle pensioni, catalizzando l’espressione del dissenso nei confronti dell’ex presidente Saleh, quindi subendone la violenta repressione. Intanto, la sua ascesa lo rendeva un interlocutore politico credibile agli occhi di paesi come Emirati arabi uniti e Russia, che graduamente iniziavano a preferirlo a Saleh, via via che questi perdeva terreno. Gli Houthis, invece, erano rimasti un movimento rappresentativo delle tribù sciite escluse dalle stanze del potere, che provavano una certa nostalgia per l’imamato, ma sapevano di non poter ormai aspirare a nulla più di una forte autonomia. La loro radicalizzazione confessionale, invece, era iniziata dopo l’attacco statunitense all’Iraq del 2003, quando i discorsi dei loro esponenti politici assunsero toni anti-americani e anti-israeliani. Nel 2004, dopo il suo arresto, Hussein al-Houthi lanciò quindi una rivolta armata, proseguita a seguito della sua morte.
Lo Yemen messo allo stretto (di Bab al-Mandeb)
L’avvicinamento degli Houthis all’Iran risale, invece, al 2011, quando un’ondata di manifestazioni popolari scosse il regime di Saleh, costretto dopo un anno alle dimissioni. Gli successe l’allora vice-presidente yemenita Abdorabbou Mansour Hadi, che tuttavia non riuscì a portare avanti il processo di transizione politica. La proposta di suddivisione dello Yemen in regioni confederate non venne accettata dagli Houthi, che avevano inizialmente integrato la Conferenza per il dialogo nazionale, istituita su iniziativa del Consiglio di cooperazione del Golfo per gestire il passaggio di poteri a Sanaa. Fallite le trattative, gli Ansar Allah cercarono di allearsi con Saleh e con il vecchio regime, per prendere il controllo di quanti più territori possibili. Giunti a Sanaa, nel 2014, riuscirono a mantenerne il controllo per circa un anno, conquistando al contempo quasi tutto lo Yemen settentrionale e puntando verso Aden, dove si era nel frattempo rifugiato Hadi. Quest’ultimo fuggì allora a Riyadh, chiedendo aiuto militare al potente vicino per ripristinare la sua autorità sul paese. Frattanto, nel 2015 era asceso al trono saudita il re Salman, ma presto il potere si concentrò nelle mani del figlio, il principe ereditario Mohammed bin Salman: entrambi convinti che la priorità per Riyadh fosse contrastare l’ascesa geopolitica regionale dell’Iran, quindi fortemente critici nei confronti dell’accordo di Vienna sul nucleare iraniano del 2015. Riyadh optò quindi per l’intervento militare, creando una coalizione di paesi arabi sunniti, alla guida della quale condusse l’operazione Tempesta decisiva. Legittimata da una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, e sostenuta da Washington con armi e supporto logistico, nelle intenzioni dei Saud la guerra yemenita sarebbe dovuta durare poche settimane. Ma l’entrata in scena dei cartelli del jihad di Daech, che hanno concentrato i loro attentati contro gli Houthis, e il coinvolgimento dell’Iran, da un lato hanno frantumato quanto rimaneva del tessuto sociale e istituzionale, dall’altro hanno trasformato uno scontro locale in un conflitto per procura tra potenze regionali, il cui oggetto principale del contendere è il controllo dello stretto di Bab al-Mandeb. Quarto passaggio marittimo più importante al mondo per il mercato petrolifero mondiale, questo snodo strategico tra Mar Rosso e Golfo di Aden si trova di fronte a Gibuti, che ospita le basi militari di potenze mondiali, come gli Usa e la Cina, e regionali, come la Francia e gli Eau, ma ha finora tenuto chiuse le porte a Iran e Russia.