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(Dis)ordini mondiali. Balcani: conflitti di riflesso

Nei Balcani, la crisi tra Mosca e l’Alleanza atlantica ha evidenziato attriti tra paesi e dissidi politici interni, la vicenda...

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Nei Balcani, la crisi tra Mosca e l’Alleanza atlantica ha evidenziato attriti tra paesi e dissidi politici interni, la vicenda del tennista Novak Ðoković ha rinfocolato il patriottismo serbo, in concomitanza con la spinta centrifuga della Repubblica serba di Bosnia; Macedonia del Nord e Bulgaria sembrano avviate alla distensione, ma le tensioni greco-albanesi, sovrapposte a quelle greco-turche, rischiano di far riesplodere la questione etnica

Guazzabuglio balcanico

L’incontro del 1 febbraio, a Mosca, tra il primo ministro ungherese Viktor Orbán e il presidente della Federazione russa Vladimir Putin è stato duramente criticato tanto dall’Unione europea e dai suoi paesi membri, quanto in Ungheria dallle forze di opposizione, che lo considerano un tradimento degli interessi nazionali. Per Orbán, invece, si tratta di una «missione di pace», giacché «nessun capo di Stato europeo vuole la guerra», ma le cancellerie del vecchio continente sono disponibili a un «accordo razionale». Inoltre, elogiando le relazioni di lungo corso tra Russia e Ungheria, Orbán ha fatto allusione al deterioramento dei rapporti con l’Europa, ma tra le questioni trattate durante i colloqui con Putin spicca la questione energetica: Mosca e Budapest hanno concordato di aumentare le forniture di gas russo, che attualmente giungono in territorio magiaro senza attraversare il territorio ucraino. Sulla stessa linea, il ministro degli Esteri ungherese, Peter Szijjarto, ha dichiarato che la questione Ucraina riguarda la Russia e l’Organizzazione del trattato dell’Atlantico Nord (Nato), ma l’Ungheria, benché ne sia membro, non vuole intromettersi, opponendosi, anzi, all’espansione a Est della stessa alleanza. Più caotica la situazione in Croazia, dove sono emersi contrasti politici tra le diverse istituzioni. Il presidente, Zoran Milanović, a fine gennaio, ha parlato dell’intensificazione della presenza della Nato in Europa orientale, dichiarando che Zagabria non intende essere coinvolta. Anzi, ha precisato, che, se le tensioni dovessero aumentare, la Croazia, anch’essa membro Nato, non solo non invierà un proprio contingente, ma ritirerà anche tutti i suoi soldati. L’Ucraina è «uno dei paesi più corrotti al mondo», ha aggiunto il presidente croato, criticando i ministri degli Esteri, Gordan Grlić-Radman, della Difesa, Mario Banožić e il Primo ministro Andrej Plenković, tutti provenienti da partiti di opposizione di centrodestra. Plenković, da parte sua, ha bollato le dichiarazioni di Milanović come «infondate e offensive», scusandosi a nome del governo croato con il «popolo dell’Ucraina», uno dei primi paesi a riconoscere l’indipendenza di Zagabria. Il primo ministro ha inoltre istituito un paragone tra l’occupazione della Croazia durante la guerra degli anni ’90 e l’attuale «occupazione di porzioni di territorio ucraino» da parte di Mosca.

Questioni di propaganda

La decisione di Washington di inviare 3.000 soldati in Germania, Polonia e Romania, è stata accolta con favore da Bucarest, che, essendo allineata alla posizione statunitense, considera il dispiegamento di truppe vicino ai confini e le esercitazioni militari della Russia come tentativi di modificare in modo inaccettabile l’architettura della sicurezza europea e teme gli attacchi degli hacker filorussi. Con tali argomentazioni, il presidente romeno Klaus Iohannis ha accolto con favore la disponibilità di Usa e Francia a incrementare il proprio contingente militare presente in Romania sotto l’egida Nato, pur manifestando il timore di ondate di profughi in caso di guerra. Peraltro, da anni nell’ex base sovietica di Deveselu, messa a disposizione dalle autorità romene agli Stati uniti e all’Alleanza atlantica, è attivo il sistema di difesa missilistico Aegis Ashore, noto come scudo antimissile, che ufficialmente dovrebbe proteggere i paesi europei da missili a corta e media gittata provenienti dal Medio Oriente. Diversa, tuttavia, è la prospettiva di Mosca, che vorrebbe che la Nato abbandonasse Romania, Bulgaria e Polonia, ritenendo questi paesi signficativi dal punto di vista della profondità strategica. Sul fronte opposto, si trova la Serbia, storica alleata della Russia, che la sostiene anche nel confronto con il Kosovo. Il presidente Aleksandar Vučić, nazionalista, considera indispensabile mantenere con Mosca una stretta collaborazione, anzitutto nei settori della Difesa e dell’approvvigionamento di gas. In secondo luogo, il richiamo ai legami storico-culturali con la Russia rappresenta uno dei cardini sia del patriottismo, sia del nazionalismo serbi, la cui narrazione risulta spesso utile, soprattutto in periodi di crisi economico-finanziaria e di esacerbazione delle diseguaglianze sociali, nei quali è difficile gestire collettività sempre più turbolente, come avviene, in questa fase, in gran parte della penisola balcanica, sottoposta alle pressioni geopolitiche europee, statunitensi, russe e cinesi. Ad esempio, per adeguare il sistema politico serbo agli standard Ue, il 16 gennaio l’amministrazione Vučić ha indetto con successo un referendum su una riforma costituzionale che prevede, peraltro, il rafforzamento della magistratura e la sua indipendenza dalla politica.

Tra Usa, Russia, Grecia e Turchia

Al contempo, Belgrado, che non è membro Nato ed è in attesa dell’accesso all’Ue, ha migliorato i propri rapporti con la Turchia, e mira in futuro a rafforzarli in vari settori, tra cui il turismo e il commercio. Una simile evoluzione potrebbe dunque influire sugli equilibri di forze tra i paesi balcanici. Ankara, infatti, si è proposta come mediatore, oltre che nella crisi ucraina, nei negoziati tra Serbia e Kosovo e tra le due entità statali federate nella Bosnia ed Erzegovina. A tale scopo, Belgrado e Priština si sono recentemente accordate sulla prossima organizzazione di un vertice tra serbi, croati e bosgnacchi (bosniaci di religione musulmana) per trovare una soluzione politica ai contrasti tra il governo centrale e la parte croato-bosgnacca da un lato, e Belgrado dall’altro. Dissidi esacerbati dalla proposta del presidente della Republika srpska (Rs), Milorad Dodik, all’Assemblea (il parlamento locale), di trasferire alcune competenze dal governo centrale a ciascuna delle due entità statali che costituiscono la Bosnia. Dunque, mentre le tensioni tra Russia e Nato hanno riportato alla mente l’attacco dell’Alleanza atlantica contro Belgrado del 1999, le vicende australiane del tennista serbo Novak Ðoković hanno contribuito a riportare in auge un orgoglio che proviene dal sentimento di esclusione dalla comunità internazionale. Al punto che il quotidiano serbo Republika ha avanzato l’ipotesi che l’espulsione di Ðoković sia una sorta di rappresaglia dell’Australia per la decisione di Belgrado di revocare alla multinazionale anglo-australiana Rio Tinto la concessione per la costruzione di una miniera di litio. In merito al progetto, infatti, il tennista aveva espresso la propria contrarietà sulle reti sociali, pubblicando immagini delle accese proteste popolari per bloccarne la realizzazione.

Minoranze irrequiete

Quanto al Kosovo, il 15 gennaio, la polizia ha annunciato di non aver consentito l’accesso alla documentazione inviata da Belgrado per chiedere a Priština di permettere alla minoranza serba la partecipazione al referendum per le riforme costituzionali: una proposta sostenuta da Usa, Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia, ma che suscita in Kosovo il timore di nuovi scontri etnici, perché potrebbe riaccendere le tensioni tra le comunità albanesi che vivono fuori dal territorio nazionale e i rispettivi governi, soprattutto in Macedonia del Nord e in Montenegro. Ne conseguirebbe un’alta probabilità che, in tutta Europa, le minoranze etniche insoddisfatte delle proprie condizioni inizino ad avvicinarsi ai movimenti indipendentisti. Infatti, mentre in altre regioni le guerre per procura coinvolgono pochi attori esterni, nei Balcani, che rappresentano uno dei terreni di scontro non solo tra Russia e Nato, ma anche tra Atene e Tirana (per questioni di confine, soprattutto marittimo, e a causa delle condizioni della comunità albanese in territorio greco) e tra Grecia e Turchia (per il controllo del Mediterraneo orientale), il quadro si complica, anche per via dell’espansione economica cinese nella regione, con il pericolo che le tensioni etniche nei Balcani sfocino in conflitti armati sanguinosi, per poi diffondersi in altre aree del continente europeo.

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