NEWS > 11 Febbraio
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(Dis)ordini mondiali. Russia-Usa: strade perdute

Le trattative tra Mosca e Washington non sono servite finora a stemperare le tensioni, concentrate ancora attorno alla questione russo-ucraina;...

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Le trattative tra Mosca e Washington non sono servite finora a stemperare le tensioni, concentrate ancora attorno alla questione russo-ucraina; divisione dei compiti in Europa: Macron in Russia e Ucraina, Scholz negli Usa; emerge intanto il fronte della guerra cibernetica

Ucraina: Russia e Stati uniti nella trappola di Tucidide?

L’8 febbraio il sito di informazione ucraino New Voice, ha riportato che, la mattina stessa, nel territorio dell’autoproclamata Repubblica popolare di Lugansk (Lnr), un gruppo di miliziani «filo-russi» ha sparato con armi leggere contro un drone di monitoraggio dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), cui spetta il compito di verificare il rispetto del cessate il fuoco concordato a Minsk nel 2014. Sul fronte opposto, lo stesso giorno, l’agenzia stampa russa Ria Novosti, ha riferito che «la milizia della Repubblica popolare autoproclamata di Lugansk» ha intercettato un drone Leleka-100 dell’esercito ucraino, che avrebbe dovuto correggere i tiri d’artiglieria nel corso di un attacco nella regione. Infatti, secondo la stessa agenzia, che cita le dichiarazioni del portavoce militare della Lnr, Ivan Filiponenko, i miliziani avevano visto le forze armate di Kiev avanzare verso le posizioni di tiro e prepararsi all’assalto presso il villaggio di Novoaleksandrovka. I droni Leleka-100, prodotti dalla compagnia Production-Innovative Company DeViRo, fondata in Ucraina nel 2014, all’inizio del conflitto con Mosca. Si tratta del terzo modello di droni di produzione domestica adottato dalle forze armate di Kiev, dopo Spectator-M1 (in funzione dal 2019), prodotto da VAT Korolev Meridian, e A1-SM Fury (in funzione dal 2020), fabbricato da Athlone-Avia.

Droni turchi

Per il resto, c’è Ankara, che dal 2019 vende a Kiev droni TB2 (impiegati nel Donbass dallo scorso autunno), fabbricati dalla compagnia Baykar, fiore all’occhiello dell’industria turca degli armamenti. Il figlio del suo fondatore, nonché fratello del suo attuale amministratore delegato, Selçuk Bayraktar, che come direttore tecnico aveva guidato la progettazione dei TB2, nel 2016 aveva sposato la figlia del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan. Oltre ad acquistare aeromobili a pilotaggio remoto dalla Turchia, dal 2023 l’Ucraina potrà provvedere all’assemblaggio dei TB2 direttamente in casa, grazie alla cooperazione tra Baykar e Ivchenko-Progress SMKB. Per consolidare il partenariato militare con Kiev, il 3 febbraio, Erdoğan ha incontrato il suo omologo ucraino Volodymyr Zelensky, dal quale è stato ricevuto come amico dell’Ucraina. Salvo poi, il giorno dopo, prendere le distanze dalla politica occidentale sulla questione ucraina, accusandola di aver solo acuito le tensioni. Ambiguità dovuta in parte ai vantaggi derivati dal partenariato economico con Mosca, in parte all’intenzione di creare i presupposti per ricattare l’Organizzazione del trattato dell’Atlantico Nord (Nato). Per ragioni analoghe, nel 2019 la Turchia aveva acquistato dalla Russia il sistema di difesa antimissile S-400, sfidando le sanzioni ai danni di Mosca e andando incontro alla rappresaglia statunitense: sanzioni contro l’industria turca degli armamenti ed esclusione di Ankara dal sistema F-35. Nondimeno, poiché 936 componenti di questi velivoli, recanti il marchio Lockheed Martin, sono realizzati in Turchia, in caso di sanzioni, gli Usa avrebbero dovuto trovare un altro fornitore.

Movimenti di truppe

L’8 febbraio, il portavoce del ministero degli Esteri ucraino Oleg Nikolenko ha criticato l’agenzia stampa statunitense Reuters, per aver definito «separatisti» i miliziani delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk, che secondo lui sono «burattini russi»: un’allusione all’accusa rivolta a Mosca da Kiev, di dispiegare mercenari nel Donbass e a uno studio di Conflict Armament Research (società con sede nel Regno Unito, esperta nelle indagini sul tracciamento delle armi), finanziato dall’Unione europea e dal ministero degli Esteri tedesco, secondo cui Mosca fornirebbe dispositivi bellici ai miliziani della stessa regione. «Non ci sono separatisti nel Donbass», ha scritto Nikolenko sulla rete sociale Twitter, «c’è l’amministrazione dell’occupazione russa», una definizione che attribuisce alla sola Russia la responsabilità del conflitto in corso. Il sostegno militare a una delle parti impegnate nel conflitto violerebbe infatti sia gli accordi di Minsk I, di cui il Cremlino è uno dei firmatari, assieme a Kiev e ai rappresentanti delle due repubbliche separatiste, sia quelli di Minsk II, siglati nel 2015 dal Quartetto Normandia (Russia, Ucraina, Francia e Germania). Entrambi sotto la supervisione dell’Osce, che il 7 febbraio ha pubblicato un rapporto proprio sulle violazioni del cessate il fuoco tra il 4 e il 6 febbraio: 416 nella regione del Donetsk, 73 in quella del Lugansk.

Europa: divisione del lavoro

Scholz a Washington

Accuse e strumentalizzazioni a parte, il conflitto tra separatisti ed esercito ucraino è di fatto uno scontro per procura tra Mosca e Washington, che ha cooptato gli alleati europei. Al punto che Bruxelles, che ha già fornito a Kiev cospicui aiuti economici per la modernizzazione, la resilienza e la gestione dell’emergenza sanitaria, ha approvato, a fine gennaio, l’erogazione di un altro pacchetto di aiuti da 1.2 miliardi di euro, in concomitanza con una cospicua vendita di armamenti Usa all’Ucraina. Intanto, Parigi e Berlino sono andate in missione diplomatica, la prima in Russia e Ucraina, mentre la seconda negli Stati uniti. Il 7 febbraio, a Washington, si sono incontrati il cancelliere tedesco Olaf Scholz e il presidente Usa Joe Biden, che hanno ribadito la loro stretta collaborazione sulla questione ucraina «per scoraggiare ulteriormente l’aggressione russa in Europa, per affrontare le sfide poste dalla Cina e per promuovere la stabilità nei Balcani occidentali». Questi, dunque, i punti sui quali Washington pretende dall’Europa massima disponibilità a svolgere i loro «compiti», come li ha chiamati Scholz. Soprattutto la chiusura definitiva di Nord Stream 2 in caso di aggressione russa in Ucraina, che non tutti in Germania accettano di buon grado, ma alla quale Biden ha fatto esplicito riferimento nella conferenza stampa congiunta con Scholz.

Macron a Mosca

Intanto, il presidente francese Emmanuel Macron, a Mosca, ha avuto un colloquio di oltre cinque ore con il suo omologo russo Vladimir Putin, nel giorno del 30 anniversario dalla firma del Trattato sulle relazioni speciali tra Russia e Francia. Ponendo l’accento necessità di mantenere il dialogo per risolvere il conflitto ucraino, Parigi ha presentato al Cremlino proposte concrete, alcune delle quali possono essere, secondo Putin, una base per ulteriori passi. Il presidente russo, che ha definito utili i colloqui, si è detto quindi disponibile a impegnarsi, poiché la sicurezza dell’Europa dipende dalla sicurezza della Russia, respingendo le accuse ucraine e statunitensi di piani e comportamenti aggressivi: «non siamo noi che ci stiamo muovendo verso i confini della Nato», ha detto, in polemica con la continua espansione a Est dell’alleanza, contraria a quanto promesso dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia. «Faremo di tutto per trovare compromessi che possano soddisfare tutti», ha aggiunto, ma «se l’Ucraina entrasse nella Nato e riconquistasse militarmente la Crimea, i paesi europei sarebbero automaticamente trascinati in un conflitto armato con la Russia», una «guerra senza vincitori», a causa dell’alto potenziale distruttivo delle armi, soprattutto quelle nucleari. Ulteriori colloqui telefonici seguiranno la visita di Macron a Kiev dell’8 febbraio. Quanto al tour diplomatico del presidente francese, l’ultima tappa è stata, lo stesso giorno, una cena di lavoro a Berlino con Scholz e il presidente polacco Andrzej Duda.

Tensioni in Europa orientale

Nell’Ue, l’unica posizione divergente dall’asse atlantico è quella dell’Ungheria, il cui presidente Viktor Orbán, agli inizi di febbraio, è andato a Mosca per rafforzare la cooperazione economica e soprattutto energetica con la Russia, da cui Budapest importa gas attraverso Balkan Stream. Putin si è detto «impressionato dall’approccio indipendente dell’Ungheria», ma l’incontro è costato a Orbán dure critiche da parte dell’opposizione interna, che lo accusa di dare l’impressione che non ci sia un fronte compatto contro la Russia. In realtà, il vecchio continente, soprattutto nelle sue regioni orientali, rischia di essere più il teatro di un eventuale scontro armato, che non un insieme, sia pure disunito, di attori geopolitici regionali. Ne sono un esempio l’alleanza militare difensiva siglata il 9 febbraio da Usa e Slovacchia, e l’integrazione della Polonia sia nel Triangolo di Weimar, con Francia e Germania (interamente inscritto nell’Ue), sia nella recente alleanza con Gran Bretagna e Ucraina (entrambe fuori dall’Ue, ma allineate agli Usa). Al contempo, truppe Usa sono arrivate in Polonia, Germania e Romania, inviate da Biden per un intervento rapido in caso di aggressione russa all’Ucraina. Infine, in Romania, paese affacciato sul Mar Nero e confinante con l’Ucraina, dove sono schierati missili balistici Nato, sono giunti un contingente francese sotto l’egida Nato e un altro statunitense. Si tratta, in parte, di una risposta ai timori espressi da Bucarest di uno scontro con la Russia, che, nondimeno, ha accusato la Polonia di inviare mercenari nel Donbass e ha lanciato altre esercitazioni militari: dal 10 febbraio con la Bielorussia (Allied Resolve), mentre nelle prossime tre settimane nelle regioni meridionali, vicine al confine con l’Ucraina. Tutte mosse, precisa Mosca, di carattere difensivo.

Ma gli umani sognano guerre cibernetiche?

Tra manovre militari e trattative inconcludenti, lo scontro tra Russia e Usa ha coinvolto il ciberspazio. Il 14 gennaio, decine di reti informatiche di agenzie governative e siti ufficiali ucraini, inclusa quella dell’azienda informatica che si occupa della loro gestione, sono state infettate da un malware dal gruppo hacker bielorusso UNC1151. Il 15 gennaio, invece, la compagnia statunitense Microsoft ha detto di aver scoperto, sulle piattaforme ucraine, virus ransomware dormienti, che avrebbero bloccato l’accesso ai dati dei computer infettati, sboccandoli a determinate condizioni (come il pagamento di un riscatto). Di entrambi gli episodi, Kiev ha accusato i servizi segreti russi, ma Mosca ha sempre negato ogni coinvolgimento. Sul fronte opposto, il 26 gennaio il gruppo di hacker bielorusso Cyber partisans ha annunciato di aver sferrato un attacco informatico alla rete della compagnia ferroviaria di Stato bielorussa, per paralizzare i trasporti e ostacolare la consegna di equipaggiamenti militari da parte di Mosca durante Allied Resolve. Un fronte cibernetico dello scontro tra due paesi, si era aperto nel conflitto tra Israele e Iran nel 2009: Tel Aviv se ne era servita per mettere fuori uso le centrifughe della centrale nucleare iraniana di Natanz. Due anni dopo, il medesimo fronte si trova nella rivolta tunisina, quando gli hacktivisti di Anonymous aiutavano i manifestanti tunisini a sfuggire alle restrizioni del governo. Un dominio, del resto, rimasto privo di regole, finché un gruppo di esperti internazionali supportato dalla Nato, ha pubblicato il primo manuale di diritto della ciberguerra.

Verso un nuovo tipo di guerra?

Le prime guerre cibernetiche di cui si ha notizia, dunque, erano state condotte da statunitensi e israeliani contro la Repubblica islamica, mentre Cina, Usa e Francia da anni si sono dotati di agenzie governative specializzate nella difesa dai ciberattacchi. L’interesse per questo nuovo fronte, sia da parte di gruppi politici e criminali che intendano colpire le istituzioni di uno Stato, sia nei conflitti tra paesi diversi, dipende in sostanza dai significativi vantaggi che esso offre. Infatti, il ciberspazio è il dominio ideale per quella che si definisce guerra asimmetrica, perché, come il vuoto azzera le differenze di peso, così la Rete azzera i tradizionali rapporti di forza, rendendo trascurabile il dato numerico a vantaggio di quello qualitativo. In altri termini, basta una sola persona, o un gruppo esiguo, in grado di creare e diffondere virus informatici letali, per mettere in ginocchio un intero paese. L’apertura del fronte cibernetico potrebbe dunque diventare il maggior punto di forza di piccoli paesi, i cui apparati militari sono scarsamente potenti, o, nelle ipotesi peggiori, corrotti o inutili.

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