Le economie dei paesi che si trovano tra Mediterraneo e Caucaso, passando per il Medio Oriente, cercano nuovi equilibri all’ombra delle attuali tensioni internazionali
Al centro degli intrecci diplomatici c’è la questione dell’approvvigionamento energetico, in particolare di gas e petrolio
Mediterraneo: l’Egitto punta alla centralità
Il 14 febbraio, al Cairo, il presidente egiziano Abd al-Fattah al-Sisi, accompagnato dal ministro del Petrolio e delle Risorse minerarie, ha inaugurato la quinta edizione dell’esposizione EGYPS 2022, che quest’anno ha come titolo «Nord Africa e Mediterraneo: fornire energia oggi». Vi prenderanno parte oltre 450 compagnie, tra cui Apache, British Petroleum, Chevron, Eni, Shell, Dragon Oil, mentre alcuni padiglioni ospiteranno multinazionali e prodotti provenienti dai principali paesi produttori di energia, come Cina, Cipro, Germania, Grecia, Italia, Russia ed Emirati arabi uniti. Alla conferenza partecipano inoltre i ministri dell’Energia di 11 paesi, 19 amministratori delegati e 8 segretari generali, che discuteranno degli obiettivi a lungo termine della transizione energetica. L’ordine del giorno includerà dunque questioni come l’autosufficienza e la sostenibilità, temi essenziali per paesi per i quali, a partire dalla seconda rivoluzione industriale, gas e petrolio sono stati in principio una forte attrattiva per le potenze coloniali (Gran Bretagna in primis), per divenire, in seguito, fonti di prosperità economica e di peso geopolitico. Ragion per cui, al-Sisi ha più volte sottolineato le sofferenze del continente africano, che paga il prezzo maggiore del cambiamento climatico e, in linea generale, non può sostenere i costi della transizione verso le energie rinnovabili. Una condizione di arretratezza, dovuta in larga misura al colonialismo, che ha prosciugato le risorse africane per circa un secolo, e che, a sua volta è una delle principali cause dell’instabilità socio-politica e della diffusione del terrorismo. Infine, il presidente egiziano ha promesso che parlerà a nome dell’Africa alla prossima Conferenza delle Nazioni unite sul cambiamento climatico (COP27), che si terrà a novembre.
Tra economia e geopolitica
L’Egitto, potenza regionale mediorientale, punta dunque sul settore energetico, che in passato era tra i pilastri di un significativo peso geopolitico. Si pensi, per citare un esempio, alla crisi provocata nel 1956 dalla nazionalizzazione del canale di Suez da parte dell’allora presidente egiziano Gamal Abd al-Nasser. Il valore geostrategico di EGYPS 2022, d’altronde, appare evidente dai paesi che vi hanno aderito: il ministro dell’Energia, del Commercio e dell’Industria della Repubblica di Cipro (parte greca dell’isola), e i suoi omologhi di Yemen, Emirati arabi uniti, Israele, Autorità nazionale palestinese, Giordania, Gibuti, Senegal, Guinea e Nigeria: tutti, incluso l’Egitto, accomunati da un passato coloniale. Dal punto di vista geopolitico, il Cairo intende dunque proporsi come perno di un’intesa basata sull’approvvigionamento energetico, capace di ridurre la dipendenza dell’Europa dalla Russia. Una tattica che apparentemente potrebbe venire incontro alla volontà statunitense di neutralizzare la sua storica rivale, relegandola in una posizione di isolamento internazionale. Tuttavia, Washington sembra avere in mente altri piani, in particolare sembra voler evitare in questo momento attriti con la Turchia, in grave difficoltà finanziaria ma pur sempre un alleato utile contro la Russia, non solo perché si affaccia sul Mar Nero (e perché intende costruire un canale alternativo al Bosforo, non sottoposto all’accordo di Montreux), ma anche perché esercita un’influenza culturale storica sulle popolazioni turcofone nel Caucaso, in Russia e, soprattutto, in Crimea. È dunque importante per gli Usa svincolare Ankara dalle intese economiche e geopolitiche con Mosca, integrandola anche economicamente nel proprio sistema di alleanze. Anche per questo, Washington ha negato ultimamente il suo sostegno al gasdotto EastMed, che avrebbe dovuto portare il gas dal giacimento israeliano Leviathan, attraverso Cipro e il Balcani, fino in Europa.
Con o senza Ankara
Oltre a non essere stata invitata al Cairo per EGYPS 2022, la Turchia è stata esclusa dal Forum del gas del Mediterraneo orientale (Emgf), la cui ultima riunione si è tenuta agli inizi di febbraio: un’assenza che pesa più in quest’ultimo caso che non nel primo, visto l’interesse di Ankara per la ricerca e lo sfruttamento di gas nel Mediterraneo orientale. All’Emgf hanno invece preso parte le autorità preposte alla gestione del settore energetico di Italia, Grecia, Cipro, Egitto, Israele, Autorità nazionale palestinese, Giordania, e, ultimamente, la Francia, che, come Grecia e Cipro, ha con la Turchia rapporti molto tesi, sia pure con diverse motivazioni: storiche per Atene e Nicosia, geostrategiche per Parigi. Tra gli osservatori di EastMed spiccano invece l’Unione europea, la Banca mondiale e gli Usa. Mentre l’assenza del Libano, sia pure non ufficialmente motivata, è stata ricondotta dagli osservatori alla partecipazione di Tel Aviv, Ankara oppone al progetto del gasdotto EastMed l’alternativa di un’infrastruttura che, partendo sempre da Israele, passasse per il territorio turco. Anzi, questa, per la Turchia, è l’unica alternativa possibile, come ha dichiarato il presidente Recep Tayyip Erdoğan di ritorno dalla visita ufficiale in Albania, lo scorso gennaio. Anche di questo hanno parlato Erdoğan e il presidente israeliano Isaac Herzog, lo scorso 6 febbraio, durante un colloquio telefonico, che si inserisce nel contesto del recente riavvicinamento di Ankara e Tel Aviv, caldeggiato da Washington. Quest’ultima, infatti, guarda con favore alla convergenza su un settore strategico di due alleati fondamentali in Medio Oriente: Israele più affidabile, ma non integrata nell’Organizzazione del trattato dell’Atlantico Nord (Nato); la Turchia, invece, seconda potenza militare della Nato, ma più incline a utilizzare quest’ultima per perseguire i propri interessi strategici.
Lo sguardo di Cipro verso Medio Oriente e Caucaso
Infatti, a differenza del suo predecessore Donald Trump, che sosteneva EastMed proprio perché escludeva la Turchia, evitando di farne il perno di un’intesa strategica, con il pretesto di diversificare le fonti di approvvigionamento energetico dell’Europa, l’attuale presidente Usa Joe Biden, che ha inasprito lo scontro con la Russia, preferisce integrare Ankara nel proprio sistema di alleanze facendo in modo che anch’essa abbia i suoi vantaggi, per allontanarla da Mosca e Tehran. A Biden, in altri termini, conviene maggiormente che la Turchia riallacci le sue relazioni con Israele e con le monarchie del Golfo, spingendola all’interno di un blocco di alleati più fedeli a Washington. A tale scopo, occorre alleviare le tensioni nel Mediterraneo orientale, soprattutto tra Turchia da un lato e Grecia e Repubblica di Cipro dall’altro. Una contesa, nella quale Israele si era schierata contro Ankara, che ora guarda pertanto con sospetto il favore di Washington al recente avvicinamento di Atene e Nikosia a Tel Aviv. Tre paesi che lo scorso dicembre hanno raggiunto un accordo per il ripristino dei collegamenti marittimi, ma che già dal 2020 stanno rafforzando le loro relazioni: nel settore militare, con l’incontro di Nicosia del novembre 2020; dal punto di vista geopolitico, con l’incontro di Atene di ottobre 2020; infine, nel settore energetico, con il progetto EuroAsia Interconnector, sostenuto da Washington.
Armenia: anello mancante nello scontro Russia-Usa?
Cipro, intanto, alla fine di gennaio ha stretto diversi accordi per la cooperazione militare con l’Armenia, vicina al sistema di alleanze di Mosca, che l’ha sostenuta durante la guerra nel Nagorno-Karabakh. Potrebbe essere questo, dunque, il tassello aggiunto da Washington, che in quel conflitto, nel 2020, era stata accusata dalla Turchia di inviare armi all’Armenia: pur avendo respinto le accuse, gli Usa avevano imposto sanzioni ad Ankara per l’acquisto del sistema di difesa antimissilistico russo e, ad aprile 2021, Biden giunse a riconoscere formalmente il genocidio degli armeni. Oggi, tuttavia, la situazione è cambiata: al culmine delle tensioni diplomatiche tra Russia e Usa, sia la Turchia, sia l’Armenia sono per Washington due anelli fondamentali per esercitare pressioni su Mosca sul fronte tra Caucaso, Mar Nero e Asia centrale, come Polonia e repubbliche baltiche lo sono per il fronte est e nordeuropeo. D’altra parte, la vendita di droni all’Ucraina da parte della Turchia ha avvicinato quest’ultima alla superpotenza statunitense, ma attrarre l’Armenia, legata alla Russia anche dall’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva, nel blocco Nato comporterebbe un vantaggio strategico sensibile. Ma rischierebbe di creare alleanze posticce, che rischiano di infrangersi in breve tempo, con la consueta scia di guerre, di cui le potenze approfittano per scontrarsi per procura.