In Africa, Medio Oriente e America latina, la Cina ricorre alla consueta politica dei partenariati economici bilaterali, mentre la base di Gibuti non le serve a dominare un territorio ricorrendo alle armi, né a imporre su di esso un controllo politico, ma a garantire la sicurezza delle rotte commerciali
Africa e Medio Oriente: obiettivi trasversali
In Africa e in Medio Oriente, la strategia della Cina da una parte è fondata sullo stesso principio del partenariato economico su cui si basa la sua politica in Europa, dall’altro ha il suo cardine nell’unica base militare di Gibuti, l’unica che Pechino ha al di fuori del territorio nazionale. Queste due regioni sono infatti accomunate dal flagello del colonialismo, ossia di asservimento delle popolazioni e depredazione delle risorse naturali, cui è seguita una fase di neo-colonizzazione da parte delle stesse potenze che un tempo vi esercitavano il dominio diretto. Molti paesi nati da guerre di indipendenza, come l’Algeria, o da rivoluzioni che hanno rovesciato governi che mascheravano un controllo da parte di queste potenze, come l’Iran, l’Iraq, la Siria, l’Egitto o la Libia, hanno visto nella Cina un modo per emanciparsi dall’ingerenza statunitense successiva all’implosione dell’Unione sovietica. Tuttavia, gli accordi commerciali e finanziari con Pechino, che hanno avuto i loro vantaggi in termini economici a breve termine, si sono spesso tradotti in un indebitamento eccessivo, che ha spinto molti paesi a rivolgersi nuovamente all’impero euro-atlantico. Come nel caso della Nigeria, che ultimamente ha chiesto prestiti all’Europa per completare i progetti ferroviari avviati con gli investimenti cinesi e interrotti a causa dello stallo dei colloqui con Pechino sul debito.
Oltre la mezzaluna sciita
Quanto al Medio Oriente, nel 2021 l’Iraq è stato il paese che ha maggiormente beneficiato dell’adesione alle nuove vie della seta, avendo ricevuto dall’Impero del centro circa 10,5 miliardi di dollari per diversi progetti infrastrutturali e industriali, tra i quali la costruzione di una centrale elettrica a petrolio pesante nella provincia di Kerbala e lo sviluppo di un giacimento di gas vicino al confine iraniano. Con questo paese, la Cina ha iniziato a instaurare relazioni economico-commerciali dopo il ritiro delle truppe statunitensi, tentando di aprirsi un varco tra le ceneri dell’imperialismo di Washington. Frattanto, Pechino mantiene un certo equilibrio tra gli attori regionali, anche se con l’Iran ha stretto un accordo di partenariato strategico, mentre con le monarchie del Golfo, storicamente alleate degli Usa, puntano piuttosto sugli accordi economici e finanziari, anche in settori strategici quali il 5G, come nel caso degli Emirati arabi uniti, pur non escludendo una cooperazione militare, contro il terrorismo e, soprattutto, per arginare l’intraprendenza turca, come nel caso dell’Arabia saudita. Con l’Iran, invece, Pechino ha intensificato la cooperazione da quando l’ex presidente Usa Donald Trump ha fatto naufragare unilateralmente l’accordo internazionale sul programma relativo al nucleare civile.
America Latina: l’ipercapitalismo fa scricchiolare la dottrina Monroe
L’adesione dell’Argentina alle nuove vie della seta, lo scorso 6 febbraio, e il viaggio del presidente argentino Alberto Fernández in Cina per i giochi olimpici invernali, hanno preceduto di un giorno l’approvazione da parte del Dipartimento della Difesa statunitense di una possibile vendita di armi a Taiwan. Segno che, benché l’attenzione della stampa mondiale sia concentrata piuttosto sulla rivalità russo-statunitense, quella tra Pechino e Washington non si è affatto spenta. In particolare, la Cina, già nel primo decennio del nuovo secolo, aveva approfittato dell’ascesa in diversi paesi sudamericani di capi di Stato di sinistra, come Hugo Chávez in Venezuela, Luiz Iñácio Lula da Silva in Brasile, Néstor Kirchner in Argentina, Evo Morales in Bolivia, Rafael Correa in Ecuador o Ollanta Humala in Perù. Al di là dei temi sociali, l’emancipazione dall’ingombrante presenza (e invadenza) Usa e l’affrancamento dai debiti con il Fondo monetario internazionale (Fmi) erano tra i principali punti del loro programma di governo: nessuna frattura, ma più autonomia, soprattutto in memoria dei colpi di Stato degli anni ‘70 nel quadro della cosiddetta operazione Condor. A tale scopo, l’intraprendenza economica di Pechino è stata vista un po’ come una valida alternativa alla sudditanza economica (quindi anche politica) nei confronti di Washington. La linea di Pechino si differenzia, pertanto, da quella della Russia, che di fronte all’espansionismo della Nato in Europa orientale e nel Caucaso, a gennaio ha ventilato l’ipotesi di dispiegare infrastrutture militari in America Latina.
L’alternativa dell’Impero del centro
La tabella di marcia di Pechino in quella parte di continente, dove dagli anni ‘20 dell’800 gli Usa hanno imposto la dottrina Monroe, è nel Piano d’azione congiunto del Forum Cina – Comunità latino-americana e Stati caraibici (CELAC), che pone l’accento sul multilateralismo e sulla costruzione di infrastrutture in molteplici domini, con il simultaneo ricorso ai finanziamenti e alla tecnologia cinesi. In fondo, è sullo stesso terreno neoliberista che l’Impero del centro intende insidiare il primato statunitense, anche proponendo un tipo di imperialismo fluido: invece di creare blocchi di alleanze monolitiche, Pechino preferisce partenariati economici con i singoli Stati, che le consentono di controllare settori considerevoli del loro mercato, soprattutto quando si indebitano. Un modo, peraltro, utile a compattare l’opinione pubblica sulla narrazione di una Cina umiliata tra XIX e XX secolo dalle potenze coloniali, e che ora giunge a minacciare l’egemonia della superpotenza del momento, traendo vantaggi strategici e tattici dallo stesso sistema economico e sociale che essa aveva imposto al mondo globalizzato. Inoltre, senza pretendere cambiamenti di regime, particolari orientamenti governativi o allineamenti strategici Pechino ricorre alla seduzione finanziaria per attrarre tanto gli alleati di Washington quanto gli ex domini francesi e inglesi. In tal modo, l’unità è data dall’intreccio tra le molteplici relazioni bilaterali, come si evince dal progetto delle nuove vie della seta. Insomma, non allineati, ma sotto lo stesso cielo.