Pechino, lontano dai riflettori, afferma la propria visione strategica attraverso incontri multilaterali incentrati su problemi concreti
Intanto, si fanno strada modelli più cooperativi, che superano la logica delle alleanze: Cina, Emirati arabi uniti, Arabia saudita
Oltre la logica delle alleanze
Il 31 marzo, l’antica città di Tunxi, nella provincia di Anhui, ha ospitato due giornate di negoziati internazionali sulla crisi economica e umanitaria in Afghanistan, cui hanno preso parte il presidente cinese Xi Jinping, il ministro degli esteri afghano Amir Khan Muttaqi e i suoi omologhi di Russia, Pakistan, Iran, Tajikistan, Turkmenistan e Uzbekistan. Xi Jinping, dunque, ha espresso il suo pieno sostegno allo sviluppo dell’Afghanistan, esortando Washington a rimuovere le sanzioni imposte contro il governo talebano, al potere dopo il disastroso ritiro statunitense. «L’aspirazione del popolo afghano», ha aggiunto il presidente cinese, «è vivere in un paese stabile, prospero e sviluppato, che favorirebbe al contempo «gli interessi comuni dei paesi della regione e della comunità internazionale». La Cina, in effetti, è stata tra i primi paesi a esprimere la propria disponibilità al dialogo con le autorità talebane di Kabul, che, per il resto, erano piuttosto isolate a livello internazionale. Parimenti, soprattutto dall’inizio del conflitto ucraino, sia la stampa, sia la diplomazia di Pechino hanno posto un’attenzione crescente sulla necessità di superare la logica delle alleanze militari e della dialettica amico-nemico, in favore di un modello di relazioni internazionali multilaterale e ispirato al principio di compatibilità universale. Solo una tale evoluzione, secondo la Cina, potrebbe infatti impedire l’esplodere di nuovi conflitti, poiché implicherebbe partenariati tra Stati per lo più bilaterali e imperniati solo sugli interessi comuni, scongiurando due fenomeni che generalmente deteriorano gli equilibri geopolitici: in primo luogo, la formazione di blocchi geostrategici, tra i quali è facile che si inneschi una competizione e i cui membri deboli finiscono spesso per essere satelliti dei più forti; in secondo luogo, l’ingerenza nelle questioni interne di altri Stati, quasi sempre strumentalizzata da potenze medie o grandi in funzione dei propri interessi geopolitici e a scapito di quelli altrui.
Usa-Cina: una fondamentale differenza di prospettive
In una tale ottica, e nel contesto del mercato globale, caratterizzato dall’interdipendenza tra i sistemi economici dei singoli paesi, l’impero del Centro ha condannato sin dall’inizio le sanzioni euroatlantiche ai danni di Mosca, in quanto controproducenti dal punto di vista diplomatico e lesivi dello sviluppo del commercio globale. Inoltre, per lo stesso motivo, ha attribuito agli Stati uniti la responsabilità maggiore per l’invasione russa dell’Ucraina, puntando il dito contro la loro pretesa di impedire ai propri alleati di instaurare relazioni vantaggiose, non solo militari, ma anche economiche e commerciali, con altre potenze considerate rivali. Mentre buona parte dei media euroatlantici hanno parlato spesso di «rivalità» tra Usa e Cina, la stampa cinese non definisce mai Washington un rivale, né un avversario, ma evidenzia una fondamentale differenza di prospettive: quella competitiva statunitense (e russa: Mosca e Washington sono state già protagoniste della guerra fredda) e quella inclusiva cinese. L’impero del Centro, semmai, vede se stesso come un paese capace di costruire la propria potenza gradualmente, risollevandosi dalle devastazioni e dalle umiliazioni subite dalle potenze coloniali nella seconda metà del XIX secolo. In tale ascesa, che ha consentito a Pechino di distaccarsi dall’Unione sovietica nel periodo comunista, quindi di affrontare con sacrificio l’epoca della transizione capitalista e, infine, di creare una fitta e solida rete di relazioni commerciali, fino a diventare una potenza economica, anche nel settore della difesa. Un approccio simile, con le dovute distinzioni storico-culturali, a quello della Turchia, dell’Arabia saudita e degli Emirati arabi uniti (Eau).
Colloqui di guerra
Tre paesi che soprattutto dall’inizio della guerra in Ucraina hanno affermato o accresciuto il proprio peso geopolitico, divenendo protagonisti anche a livello diplomatico: Ankara agisce in modo più diretto, proponendosi come mediatrice tra Mosca e Kiev, e ospitando un forum diplomatico mondiale ad Antalya e un incontro tra russi e ucraini a İstanbul; Abu Dhabi e Riyadh, invece, differenziano le proprie alleanze e i propri partenariati economici. Anzi, nel caso degli Eau, l’economia, soprattutto petrolifera, è un terreno comune ideale per la costruzione di rapporti internazionali. Per citare due esempi, si pensi all’esposizione internazionale Expo 2020 Dubai e all’evento annuale del World Government Summit, che quest’anno ha avuto tra i temi principali un nuovo equilibrio per la pace in Medio Oriente e la necessità di collaborare con tutti i paesi della regione per la prosperità e la stabilità, ma anche l’innovazione tecnologica, la transizione digitale e le sfide poste dal cambiamento climatico. Per la stessa ragione, Riyadh e Abu Dhabi hanno declinato l’invito di Washington ad aumentare la propria produzione petrolifera per evitare ulteriori ripercussioni delle sanzioni alla Russia (che Eau e Arabia saudita non applicano) sul mercato globale degli idrocarburi, e di conseguenza sul settore energetico: entrambe hanno risposto di non voler prendere decisioni unilaterali prima di discuterne con gli altri membri dell’Opep+, l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio più la Russia. Nella stessa ottica della cooperazione e degli interessi comuni, le due monarchie del Golfo non solo hanno stretto rapporti economici con la Cina, ma hanno anche aperto spiragli di dialogo con l’Iran (soprattutto Abu Dhabi), che di Pechino è un partner strategico.
La guerra ai tempi del mercato globale
Durante uno dei due incontri di Anhui, i delegati russi e statunitensi si sono seduti allo stesso tavolo: secondo il quotidiano cinese in inglese Global Times, qui si comprende la peculiarità della diplomazia di Pechino, che, mentre l’attenzione dell’ «Occidente» è concentrata sull’Europa orientale, si impegna a far sedere le parti belligeranti allo stesso tavolo per risolvere problemi concreti, nella fattispecie la disastrosa condizione economica afghana. È la soluzione di questioni pratiche, quindi, a rappresentare l’interesse comune sul quale costruire il dialogo, non presunti propositi di esportare democrazia o di difendere la sovranità di altri paesi dalle potenze rivali per integrarli nel proprio sistema di alleanze. L’ottica della cooperazione e del multilateralismo, peraltro, contribuisce allo sviluppo di un mercato autenticamente globale, contrapponendosi a una globalizzazione che si è tradotta nell’imposizione del modello economico-politico e socio-culturale della potenza vincitrice della guerra fredda. Inoltre, una cooperazione globale nell’ottica degli interessi comuni potrebbe essere particolarmente efficace per affrontare tanto le sfide costituite dal cambiamento climatico e dalla transizione digitale, quanto il pericolo di carestie che si profila a causa della penuria di grano (di cui Ucraina e Russia erano tra i principali esportatori) e dell’aumento dei prezzi dei carburanti e dei fertilizzanti. La questione della sicurezza alimentare, in cui politica estera e interna si intrecciano, è legata, a sua volta, a quella del rapporto tra uomo e ambiente, che negli ultimi anni occupa uno spazio considerevole nel dibattito pubblico, ma spesso in funzione strumentale. Tra le principali cause di conflitto, infatti, ci sono le cosiddette “risorse naturali”, come gli idrocarburi, i semiconduttori e le terre rare, la cui gestione può determinare la stabilità o l’instabilità economica e sociale di un territorio. Più che alla corsa agli armamenti, dunque, sarebbe forse più utile destinare il denaro pubblico all’eliminazione, o almeno all’attenuazione, delle diseguaglianze sociali.