Mentre l’aumento di contagi in Cina induce la stampa internazionale a mettere in discussione il suo modello di gestione dell’emergenza sanitaria, la guerra in Ucraina potrebbe ostacolare la visione geostrategica globale di Pechino
La ridefinizione delle relazioni internazionali, intanto, offre al Celeste impero un’opportunità per affermarsi in un (futuro) contesto multipolare
Strategia Zero Covid: l’autunno delle chimere?
Oltre alle turbolenze geopolitiche, a causare inquietudine sul fronte Indo-Pacifico è la nuova ondata di contagi da Covid-19 in Cina, che, partita da Shanghai, rischia investire anche Pechino. Eppure, la cosiddetta politica Zero Covid, o Covid Zero, è uno dei cavalli di battaglia della politica interna del presidente cinese Xi Jinping, come le nuove vie della seta lo sono per la sua politica estera. Secondo l’agenzia stampa Reuters, tuttavia, la linea adottata da Pechino per affrontare l’emergenza sanitaria ha un impatto negativo, sia sulla crescita economica, ostacolando l’attività di imprese e fornitori di servizi, sia sull’assetto sociale, provocando malcontento tra la popolazione. Tra il 1 marzo e il 27 aprile, in tutto il paese si sono registrati 600 mila casi di Covid-19, con 287 decessi, di cui 285 a Shanghai. È pur vero che, dall’inizio della pandemia, in Cina sono morte “solo” 4.923 persone: anche se la stessa Reuters riferisce che alcuni sollevano dubbi sulla veridicità dei dati ufficiali forniti da Pechino, si ammette che il tasso di mortalità nell’Impero del centro è stato inferiore, ad esempio, rispetto a Stati uniti (un milione di vittime) o India (oltre mezzo milione di morti su una popolazione di 1,4 miliardi di persone). Attualmente in Cina 46 città sono sottoposte a lockdown completi o parziali, con test di massa e restrizioni alla circolazione degli abitanti: complessivamente tali misure coinvolgono circa 343 milioni di persone e incidono per il 35% sulla produzione totale del paese. Ma, almeno per ora, la politica Zero Covid non sembra in discussione a Pechino.
Una cintura, una via: un malinteso?
Poiché Kiev, che nel 2017 ha aderito all’iniziativa Una cintura, una via (le nuove vie della seta, note come Belt and Road Initiative – Bri), rappresenta per Pechino la porta dell’Europa, diversi analisti hanno espresso il timore che la guerra possa minare l’intero piano geostrategico globale cinese. In primo luogo, perché non solo ha interrotto (e potrebbe far saltare) i progetti infrastrutturali elaborati da Pechino per l’Ucraina, ma ha anche deteriorato il sistema di infrastrutture esistenti, oltre a sprofondare l’intera regione europea nell’incertezza finanziaria. Infatti, a parte il ruolo della Russia tra i paesi esportatori di gas, petrolio e fertilizzanti, e dell’Ucraina nell’esportazione di grano, entrambi i paesi occupano posizioni significative tra i fornitori di minerali (terre rare comprese). Filiere che interessano la produzione di tecnologie necessarie alla transizione ecologica, in un momento in cui si discute della necessità di far fronte al cambiamento climatico e, in Europa, dell’esigenza di emanciparsi dalla dipendenza da paesi che possano garantire un approvvigionamento energetico sufficiente alle esigenze crescenti determinate dalla transizione digitale. In secondo luogo, il rifiuto da parte di Pechino di aderire alle sanzioni euroatlantiche contro Mosca potrebbe indurre Bruxelles a limitare la cooperazione economica e finanziaria con la Cina. Tanto più che la Bri affronta la concorrenza di iniziative analoghe, come l’Asia-Africa Growth Corridor, lanciato da Giappone e India nel 2017, il Blue Dot Network, partenariato trilaterale siglaato da Australia, Giappone e Usa, il Build Back Better World (B3W), avviato dagli Usa con i paesi del G7 a giugno 2021, e la strategia Global Gateway, concepita dall’Unione europea lo scorso dicembre. Le nuove vie della seta, peraltro, coinvolgendo finora 147 paesi e 32 organizzazioni internazionali, richiedono stabilità politica e disponibilità ad accordi bilaterali su singole questioni, al di fuori dei sistemi di alleanze strategico-militari.
Conflitto di posizione
In sostanza, il modello proposto dalla Cina si basa su un assetto geopolitico mondiale multipolare, all’interno del quale i singoli paesi, tanto le potenze globali e regionali, quanto gli Stati finora considerati come satelliti, instaurino relazioni bilaterali su singole questioni e in settori definiti, nel quadro di un diritto internazionale in grado di impedire quella che Pechino chiama logica delle alleanze. Non a caso, finora, la Bri si afferma come il più ampio progetto economico, comprendendo paesi non necessariamente legati da alleanze militari o strategiche analoghe all’Organizzazione del trattato dell’Atlantico Nord (Nato). Nondimeno, il partenariato strategico tra Cina e Russia, nel contesto attuale, potrebbe incrinare i rapporto tra Pechino e i paesi appartenenti al blocco euroatlantico. Inoltre, il deterioramento o l’interruzione delle relazioni tra gli Stati membri dell’Ue e Mosca potrebbe produrre un’evoluzione dalla portata storica: la Russia potrebbe infatti concentrare le sue attività economiche, finanziarie e geopolitiche in Asia, per cercare di rifondarsi come potenza asiatica, anziché europea. Una tale evoluzione, a sua volta, potrebbe accelerare la marginalizzazione geopolitica del vecchio continente, che potrebbe perdere la possibilità di elaborare un qualsiasi progetto eurasiatico. Un processo simile a quello innescato dall’emergere di potenze quali Usa e Giappone, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Contestualmente, si aprirebbero spiragli di affermazione geopolitica per medie potenze regionali come la Turchia, che tra Europa e Oriente ha sempre costruito le sue fortune, Israele, l’Egitto o le monarchie del Golfo, prime fra tutte Arabia saudita ed Emirati arabi uniti. Per la Cina, d’altronde, la Bri è uno strumento per il riscatto dalle sistematiche umiliazioni subite nel XIX secolo dalle potenze coloniali europee, compresa la Russia zarista. Riscatto già in parte realizzato, scardinando il monopolio mondiale del dollaro nelle transazioni petrolifere.