Indonesia: la palma della discordia

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L’indonesia estende il blocco delle esportazioni di oli vegetali includendo l’olio di palma crudo, per fermare l’impennata dei prezzi sul mercato interno e arginare l’inflazione

Ma questa misura, oltre ad aver causato tensioni sui mercati per l’iniziale carenza di dettagli sulla portata delle restrizioni, è un’arma a doppio taglio per l’economia locale

La stangata

Il 28 aprile, in Indonesia, è entrato in vigore il blocco dell’esportazione dell’olio di palma, come annunciato la settimana precedente dal presidente Joko Widodo, secondo cui la misura è finalizzata a contrastare la carenza di oli da cucina sul mercato interno, già in affanno a causa dell’inflazione spinta dall’aumento dei prezzi dei generi alimentari. Un modo, dunque, per alleviare la tensione sociale, sfociata lo scorso 11 aprile in un’ondata di proteste, repressa dalla polizia. Primo produttore al mondo di olio di palma, da cui proviene circa il 60% delle forniture globali, Giacarta ha così scatenato un terremoto, tanto nella finanza nazionale, quanto sui mercati internazionali. Anche perché, il 27 aprile il ministero dell’Economia indonesiano, un giorno dopo aver assicurato che il blocco fosse limitato all’oleina di palma, ha ventilato l’ipotesi di estenderlo all’olio di palma crudo, all’olio di palma RBD e a quello più raffinato, destinato alle cucine domestiche. Dunque, l’iniziale assenza di dettagli nell’annuncio di Widodo aveva fatto temere che il blocco riguardasse tutti i prodotti legati a questo bene, causandone un’impennata dei prezzi sul mercato mondiale, i future sull’olio di palma crudo in Malesia, altro riferimento mondiale nel settore, sono immediatamente saliti del 10%. Successivamente, dopo il comunicato del ministero dell’Economia, i prezzi erano nuovamente scesi, mentre l’aumento degli stessi future si era attestato al 7%. Contestualmente, sul fronte interno, l’annuncio del blocco è stato seguito da una brusca perdita di valore della rupia indonesiana, che attualmente si attesta sugli 0,000069 dollari statunitensi (0,000065 euro).

Effetto farfalla

Additato per il suo impatto sulla saute e per una produzione ritenuta responsabile della deforestazione e dello sfruttamento della manodopera nelle piantagioni, l’olio di palma continua tuttavia a essere molto richiesto sul mercato globale, soprattutto perché il suo costo di vendita è inferiore di circa 200 dollari rispetto a quello degli altri oli vegetali. Il suo uso, di conseguenza, è diffuso in vari settori, da quello alimentare (ad esempio nelle merendine, come olio da cucina o negli alimenti per animali), alla cosmetica, ai prodotti per la cura della casa, ma soprattutto per produrre biocarburanti. Il primo importatore al mondo è l’India, il cui consumo di olio di palma è triplicato negli ultimi vent’anni, inducendo il governo a promuoverne la produzione nazionale per evitare la dipendenza da altri paesi. Un altro importante acquirente di questo prodotto è la Cina, che nel 2019 ne ha aumentato l’importazione del 60%, essenzialmente per due ragioni. Anzitutto, la drastica diminuzione dei maiali provocata dall’epidemia di peste suina africana aveva ridotto le importazioni cinesi di soia, dalla cui lavorazione si produceva anche olio: per sopperire alla carenza di oli vegetali, la Cina aveva quindi aumentato l’importazione di olio di palma. In secondo luogo, la guerra commerciale con gli Stati uniti, primo esportatore di soia in Cina, aveva contribuito alla sostituzione dell’olio di soia con quello di palma. Anche in Europa, dove in alcuni paesi (soprattutto Francia, Italia e Spagna) è in crescita la richiesta di prodotti alimentari senza olio di palma, il suo consumo non si è affatto ridotto, a causa del suo uso per la fabbricazione di biocarburanti. Un settore che pesa per circa un quinto sul mercato mondiale di olio di palma e per il 40% su quello europeo.

Un tenebroso affare

In sostanza quindi, l’aumento, dalla fine del 2020, dei prezzi di energia e fertilizzanti, che ha provocato rincari dei prodotti agricoli, compresi gli oli vegetali, ha avuto un doppio impatto negativo, da un lato sui costi degli oli da cucina, dall’altro su quelli dell’energia. Ad esempio, secondo le stime dell’Organizzazione delle Nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), a febbraio 2022, rispetto a due anni prima, il prezzo degli oli vegetali era più che raddoppiato, ancor prima che esplodesse il conflitto ucraino. Inoltre, se generalmente il consumo di oli vegetali è maggiore nei paesi più ricchi, oggi si assiste ovunque alla tendenza all’aumento del consumo pro capite: 10 kili nei paesi meno avanzati, tra 25 e 30 kili in Europa, 40 kili negli Usa. Una tendenza, che ha spinto talvolta a sottrarre quantità variabili di oli vegetali utilizzati per la produzione di biocarburante, per farne oli da cucina. Non solo olio di palma, dunque, ma anche di colza e di soia, tra i quali è in corso una decennale competizione, in cui sembrano giocare un ruolo importante i relativi gruppi di pressione, o lobby. Infatti, secondo Pierre-Marie Aubert (ricercatore di politiche agricole e alimentari presso l’Istituto francese per lo sviluppo sostenibile e le relazioni internazionali), la cattiva reputazione dell’olio di palma affonda le sue radici in una controversia iniziata negli Usa nel 1989, quando si affermò l’idea che sostituirlo con quello di soia, di cui Washington è il primo produttore mondiale, era questione di patriottismo economico.

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