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India: verso una produzione locale di semiconduttori

New Delhi si appresta a produrre in casa questi preziosi materiali, obbligando le aziende che operano nel suo territorio ad...

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New Delhi si appresta a produrre in casa questi preziosi materiali, obbligando le aziende che operano nel suo territorio ad acquistare chipset locali

Da mesi il governo indiano gia investiva nel settore, nel tentativo di diventare un anello fondamentale della filiera globale dei chip

Una questione di autosufficienza

Dieci miliardi di dollari in cinque anni, è quanto l’India è disposta a scommettere nei prossimi cinque anni sull’industria dei semiconduttori, non più solo per diventare un anello fondamentale nella filiera produttiva, ma per produrre nel proprio territorio nazionale questi semimetalli, preziosi per la transizione energetica e digitale e importanti per l’industria automobilistica. Per questo percorso verso l’autosufficienza tecnologica, New Delhi ha fissato un termine di tre anni o tre anni e mezzo, al termine del quale alle aziende che operano nel settore dell’elettronica sarà «richiesto» di acquistare chipset sul mercato indiano. Cinque aziende, finora, hanno chiesto di beneficiare del piano di incentivi previsto, ma il governo si aspetta che partecipino anche multinazionali. L’obiettivo finale è creare un ecosistema vivace, favorevole allo sviluppo di un’industria nazionale del settore e, per meglio esplicitare questo messagio, il 29 aprile, a Bengaluru, il primo ministro indiano Narendra Modi ha inaugurato la prima conferenza dedicata ai semiconduttori nel paese. Intervenuto in videoconferenza, infatti, ha aperto il suo discorso sottolineando la necessità di cogliere l’opportunità del «nuovo ordine mondiale» che si va delineando: l’India, ha spiegato, ha «voglia di rischiare» e ha già dimostrato in passato la propria dimestichezza con le leggi di mercato. Anche per questo, il paese è «pronto per una forte crescita economica». Entro metà maggio, quindi, sarà nominato il direttore della Missione indiana semiconduttori (Ism), organismo preposto all’esame delle richieste di partecipazione, che, a sua volta, dovrà fornire al governo le indicazioni necessarie per decidere quali aziende avranno accesso agli incentivi.

Nel cono d’ombra del Celeste impero

Ancor prima di mirare alla completa autosufficienza tecnologica, l’India cercava da mesi di affermarsi nella filiera esistente, approfittando, in particolare, della recente stretta imposta dalla Cina alle aziende del settore, per frenarne il potere economico (e di conseguenza politico). Molte imprese, infatti, hanno deciso di spostare le proprie sedi e i propri stabilimenti in territorio indiano, inducendo New Delhi a elaborare un piano di incentivi per attrarre società impegnate nella produzione di semiconduttori e di display. I principali concorrenti, oltre alla Cina, sono Taiwan e Israele, ma l’India sembra intenzionata ad adottare la stessa strategia che le ha consentito di diventare la seconda produttrice mondiale di smartphone, dopo l’Impero del centro. A indirizzarla in questa direzione, la riflessione sulla crisi dei semiconduttori del 2021, quando, a causa delle restrizioni alla circolazione delle persone per contrastare l’emergenza sanitaria da Covid-19, un aumento significativo della richiesta di dispositivi elettronici si era registrato proprio nel momento in cui le imprese produttrici avevano deciso tagli alla produzione. Una riflessione alimentata da previsioni come quelle dell’amministratore delegato di Intel, Pat Gelsinger, secondo cui la crisi dei semiconduttori, che incombe sulla produzione di microchip, si protrarrà fino al 2024, poiché la scarsità di materiali ha rallentato il ramo manifatturiero. Anche Intel, di conseguenza, si accinge a prendere contromisure, aprendo due fabbriche di chip in Arizona e un impianto in Ohio, e investendo contestualmente 80 miliardi di euro complessivi per realizzare in Germania uno stabilimento d’avanguardia per la produzione di semiconduttori, in Francia un centro di ricerca e sviluppo, nonché stabilimenti di servizi in Irlanda, Italia, Polonia e Spagna.

La dottrina Jaishankar

Il piano di Modi prevede anche una joint venture tra la società indiana Vedanta, la taiwanese Foxconn e la IGSS Ventures di Singapore. D’altronde, Taiwan, assieme agli Stati uniti, è uno dei pochi giganti mondiali nella produzione di microchip, ma l’India sembra decisa a fare della diplomazia dei semiconduttori uno dei cardini della sua politica estera. Anche perché gli equilibri, all’interno di questo settore in ascesa del mercato globale, sono alquanto fluidi, tanto che a metà aprile la Samsung ha spodestato la Intel del primato mondiale delle vendite. Nondimeno, diplomazia dei semiconduttori significa anche consapevolezza della portata strategica della capacità di produrre questi materiali. Infatti, l’India è considerata un partner geostrategico essenziale dagli Usa, sia sul fronte russo, sia sul fronte cinese, e non intende lasciarsi sfuggire le opportunità che ne derivano. Così, del resto, insegna la dottrina Jaishankar, che prende il nome dall’attuale ministro degli Esteri indiano Subrahmanyam Jaishankar, che ha preso parte al recente incontro tra i ministri degli Esteri e della Difesa di India e Usa. Un colloquio ufficialmente consacrato alla sicurezza internazionale, ma nel quale, di fatto, non si è discusso del conflitto ucraino, che attualmente viene presentato come la principale minaccia, lanciata dalla Russia, all’ordine mondiale. La pragmatica dottrina Jaishankar, in sostanza, si oppone a quella che definisce la «moralpolitik» o il «romanticismo politico» dell’ex presidente indiano, Jawaharlal Nehru, cofondatore del Movimento dei paesi non allienati: bisogna, piuttosto, liberarsi dell’antinomia tra «nemici» e «alleati», sfruttando i conflitti tra paesi, mantenendo un equilibrio di forze favorevole e puntando all’affermazione come potenza economica. Questo, ad esempio, è il senso della risposta di Jaishankar, durante la conferenza Raisina Dialogue, alle pressioni euroatlantiche per indurre l’India a interrompere la cooperazione economica con la Russia. Una strategia non troppo dissimile, peraltro, da quella cinese, e su cui gli Usa vorrebbero puntare per contrastare l’intraprendenza di Pechino.

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