Attacchi dell’esercito iracheno contro le Unità per la resistenza del Sinjar, una delle milizie yazide create per contrastare i gruppi islamici radicali, soprattutto sunniti
Baghdad asseconda, sia pure controvoglia, la strategia di Ankara per le regioni curde dell’Iraq e della Siria: militarizzazione dei contrasti etno-confessionali e guerra senza quartiere al Partito dei lavoratori del Kurdistan
Sinjar: guerra senza fine
La mattina del 2 maggio, nel distretto di Sinjar, vicino al confine siriano, l’esercito iracheno ha sferrato un duro attacco, con artiglieria pesante e carri armati, contro le Unità per la resistenza del Sinjar (Ybs), ufficialmente per contrastare la presenza di forze alleate del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk). Particolarmente tenace è stata la resistenza opposta dagli abitanti di Sinun, dove, secondo quanto riporta la testata panaraba Al-Araby al-Jadeed, la battaglia con le forze armate di Baghdad è andata avanti per ore. Circa duecento famiglie si sono rifugiate nella provincia di Duhok, controllata dal Governo regionale del Kurdistan iracheno (Krg), ma in molti hanno imbracciato le armi per difendere le proprie case. Nel pomeriggio del giorno precedente, peraltro, vicino Dugri, erano scoppiati violenti scontri a fuoco tra le forze armate irachene e le Ybs, milizia yazida nata nel 2007, dopo i quattro sanguinosi attentati suicidi del 14 agosto, mai rivendicati, ma attribuiti dagli Stati uniti ad al-Qaeda e da Baghdad a gruppi sunniti radicali iracheni. Le Ybs, infatti, assieme ad altre milizie yazide, controllano il Sinjar dal 2014, quando lo conquistarono con il sostegno del Pkk, respingendo i cartelli del jihad del cosiddetto Stato islamico (Isis, Daech). Questi ultimi, poco prima, avevano ucciso oltre cinquemila persone nel distretto, riducendo in schiavitù migliaia di donne. Allora, parte della responsabilità ricadde sui peshmerga, le truppe del Krg, che, dopo aver respinto Daech dai propri territori, si ritirarono, lasciando le Ybs prive di copertura difensiva. Lo scontro attuale, tuttavia è da un lato con la Turchia, che da anni compie incursioni aeree (anche mediante droni) in territorio iracheno e siriano per colpire il Pkk, dall’altro con l’esercito di Baghdad, che periodicamente ammassa truppe nel distretto di Sinjar e nelle aree a maggioranza yazida, spesso con il pretesto di contrastare le infiltrazioni di Daech dalla Siria.
Obiettivo Kurdistan
Se il Krg, con i suoi peshmerga, è integrato anche sul piano istituzionale nel governo dell’Iraq, lo stesso non può dirsi delle altre formazioni curde, in particolare quelle affiliate al Pkk, e le milizie yazide, di cui le più consistenti e strutturate sono le Ybs e la Forza di protezione di Êzîdxanê (Hpê). Una situazione analoga a quella dei curdi del Rojava, provincia autonoma siriana, per almeno due motivi: anzitutto, la marginalizzazione all’interno del sistema politico e sociale dei rispettivi paesi, con una breve parentesi di legittimazione internazionale come forza utile a contrastare l’avanzata di Daech; in secondo luogo, una certa vicinanza al Pkk dei curdi turchi, che li rende un bersaglio privilegiato per l’aviazione militare di Ankara, che, forte del sostanziale tacito assenso della comunità internazionale, ha messo da parte qualsiasi considerazione della sovranità di Siria e Iraq. Da più di una settimana prima degli scontri del primo maggio, inoltre, Baghdad aveva ricominciato a concentrare contingenti armati nel Sinjar e nelle aree adiacenti, anche se con il pretesto di arginare eventuali sconfinamenti di Daech dal territorio siriano. Una mossa che aveva provocato tensioni tra la popolazione locale, soprattutto dopo il 18 aprile, data di inizio dell’attacco di terra turco contro presunte postazioni del Pkk nell’Iraq settentrionale. Inoltre, mentre in precedenza la Turchia aveva potuto contare su una sorta di lasciapassare informale delle autorità del Krg e del governo centrale di Baghdad, questa volta l’atteggiamento di entrambe sembra cambiato, anche se Erbil non ha preso una posizione definita. L’obiettivo degli ultimi attacchi, infatti, era non tanto di distruggere basi attribuite al Pkk o a forze ad esso legate, quanto di stabilire nel Kurdistan iracheno (e verosimilmente anche nelle aree yazide) una rete di “basi di osservazione”.
Una vittoria di Pirro per Ankara?
D’altro canto, secondo quanto riferisce il Jerusalem Post, vi sono testimonianze di attacchi da parte di droni turchi contro una milizia filo-iraniana vicina alle Unità di mobilitazione del popolo (gruppo paramilitare delle forze di sicurezza irachene, considerato alleato di Tehran), in prossimità della base di Bashiqa, utilizzata da Ankara per estendere il suo controllo sull’intero Kurdistan iracheno. Tuttavia, la Sublime porta deve ora fare i conti con il Krg, che non appare disposto a cedere il controllo del proprio territorio, e con Baghdad, che ha condannato le ultime incursioni nel suo territorio, convocando l’ambasciatore turco per esprimergli la propria contrarietà. Inoltre, le autorità irachene avevano immediatamente smentito le dichiarazioni rilasciate il 20 aprile dal presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, secondo cui Ankara avrebbe agito con il «supporto» del Krg e con la «collaborazione» del governo iracheno. In realtà, sia a Erbil, sia a Baghdad, appare abbastanza probabile che, dietro il pretesto dell’autodifesa dal Pkk in nome della sicurezza nazionale, si nascondano due importanti obiettivi tattici per la Turchia: un proposito di proiezione di potenza a scapito dell’Iran, che in Iraq conta su diverse formazioni alleate, e l’intenzione di chiudere in qualche modo la partita del Kurdistan, prima che la ridefinizione degli equilibri mondiali, in nome del superamento della logica dei due pesi e due misure, possa mettere in discussione la sovranità geopolitica turca sulla regione. Per Ankara, del resto, il controllo del Kurdistan, soprattutto in Siria e in Iraq, è questione di profondità strategica.