Annoverati tra le «materie prime critiche», questi elementi indispensabili alla transizione energetica e digitale sono al centro della partita sino-statunitense
Ma anche l’Europa partecipa alla corsa, soprattutto per far sì che l’emancipazione dalla dipendenza dalla Cina avvenga nella direzione dell’autonomia strategica
L’Europa vorrebbe giocare le proprie carte
Il 2 maggio 2022, l’emittente tedesca Deutsche Welle ha diffuso un video a proposito delle ricerche di terre rare e di altre materie prime critiche, condotte in Europa settentrionale dalla società norvegese Norge Mining. Non solo minerali rari, dunque, ma anche titanio, vanadio, fosforo, litio, e grafite: materiali indispensabili a tutti i livelli della transizione ecologica e digitale, che servono a produrre energie rinnovabili, automobili elettriche, componenti di base dei dispositivi elettronici, televisori a schermo piatto e, nel caso del fosforo, concimi. Infatti, per l’approvvigionamento di questi elementi, l’Europa, come il resto del pianeta (Stati uniti inclusi), dipende dalla Cina, che da sola ne assicura il 62% della produzione mondiale, il 98% se si considerano anche rame, platino e silicio. Di conseguenza, la stessa realizzazione degli obiettivi mondiali nel contrasto al cambiamento climatico dipende da Pechino, che vanta una posizione di quasi monopolio sull’estrazione e sulla lavorazione, quindi un dominio quasi assoluto sull’intera filiera. Per questo, Bruxelles ha recentemente messo in campo l’Alleanza europea delle materie prime, su cui si fonda l’istituzione di un consorzio europeo di imprese con sede a Berlino. L’obiettivo è proteggere l’Europa dall’intraprendenza geostrategica del suo primo fornitore di materie prime critiche (espressione, quest’ultima, coniata a Bruxelles), localizzando i giacimenti nel vecchio continente e individuando le aziende capaci di investire vantaggiosamente nel settore. Una reazione piuttosto tardiva, se si considera che la presa di coscienza dei rischi legati all’eccessiva dipendenza dalla Cina è avvenuta tra 2008 e 2010.
La Cina e l’eredità della visione strategica di Deng Xiaoping
Al contrario, l’Impero del Centro ha saputo conquistare la sua posizione grazie alla visione strategica elaborata negli anni ‘90 del secolo scorso dall’ex presidente Deng Xiaoping, che aveva previsto il valore geopolitico e geostrategico, sostenendo che «i paesi arabi hanno il petrolio, ma la Cina ha le terre rare». Una volta entrata nell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc), dunque, la Cina ha gradualmente costruito il proprio primato nell’estrazione e nella lavorazione di queste materie prime, giungendo, soprattutto dal 2018, a esportare prodotti lavorati. Una posizione cui hanno contribuito Europa e Stati uniti, che, a causa dell’impatto ambientale della produzione di terre rare, hanno ceduto volentieri terreno a Pechino, che ora ne vanta circa un terzo delle riserve mondiali. Inoltre, negli ultimi anni, l’iniziativa delle nuove vie della seta (Bri) ha consentito al Celeste impero di ordire una rete di relazioni per aumentare le sue fonti di approvvigionamento, in particolare in Africa. Nel giugno 2010, peraltro, l’Unione europea aveva organizzato con l’Unione africana un vertice dedicato alle terre rare, coinvolgendo in particolare Repubblica democratica del Congo, Ruanda, Mozambico e Sudafrica. A far tremare i mercati globali, tuttavia, sono state le restrizioni alle esportazioni di terre rare imposte nel 2012 e nel 2013 da Pechino, per promuovere la filiera nazionale e sviluppare il mercato interno. Tali limitazioni consistevano soprattutto in tasse sulle esportazioni, razionamenti e indicazioni specifiche su prezzi, licenze e procedure di produzione.
Pechino-Washington: scontro all’ultimo milligrammo
Anche se l’Omc aveva bacchettato la Cina per simili misure nel 2014, le loro ripercussioni sui mercati mondiali, in una fase di aumento esponenziale della loro richiesta (dovuto alla digitalizzazione crescente e alle innovazioni del settore automobilistico), lasciò intendere che l’autosufficienza, o almeno la possibilità di evitare la dipendenza globale da un solo fornitore, sarebbe stato un notevole vantaggio geopolitico. Soprattutto perché già era in corso la partita tra Washington, decisa a mantenere il suo status di superpotenza globale, e Pechino, che puntava a un lento ma inesorabile riassetto degli equilibri mondiale. Una rivalità che si giocava soprattutto sulla capacità di incidere sul piano commerciale e finanziario e che, di conseguenza, interessava tutti i livelli della produzione e degli scambi di merci: dal controllo delle rotte commerciali, fino a quello sulle filiere produttive di beni strategici. Per le terre rare, teatro dello scontro sono l’America latina, l’Artico, l’Asia centrale e l’Europa orientale, in primis l’Ucraina, che nel Donbass ne ospita importanti riserve. Un altro esempio è quello del berillio, di cui Kiev controlla la più grande riserva europea, molto importante per le sue applicazioni elettroniche e nell’industria aerospaziale e militare. Per questo, quando l’Ucraina aderì all’iniziativa cinese Bri, accettando il ruolo di «porta d’Europa», per Bruxelles fu chiaro che era tempo di correre ai ripari.