Nell’Artico, dove convergono, anche geograficamente, gli interessi delle tre massime potenze mondiali, si avvertono gli echi del conflitto ucraino
Anche al polo Nord, del resto, la partita si gioca sui due piani del controllo territoriale e dello sfruttamento di materie prime critiche
Svalbard: spiragli di cooperazione
Molti osservatori si domandano se la guerra in Ucraina non si ripercuota, o non si stia già ripercuotendo, sugli equilibri geopolitici dell’Artico, la cui stabilità attuale è stata costruita mediante una decennale cooperazione tra gli Stati che vi si affacciano e la Cina, che di recente ha iniziato a proiettarvi la propria potenza. Se dunque la posizione di questa delicata zona del pianeta ne fa uno dei punti di convergenza degli interessi geostrategici di Cina, Stati uniti e Russia, ad accrescerne l’importanza è lo scioglimento dei ghiacci perenni (a causa del riscaldamento climatico), che aumenta gli spazi marittimi navigabili e facilita l’accesso alle risorse naturali. Malgrado le questioni di confine e la disputa sull’isola Hans tra Canada e Danimarca, tra la fine degli anni ‘80 e la prima metà degli anni ‘90, l’esigenza di smilitarizzare l’Artico e di cooperare per lo sfruttamento delle risorse naturali emerse anzitutto nell’Iniziativa Murmansk, nata da un discorso tenuto dall’ex presidente dell’Unione sovietica Mikhail Gorbačëv nell’omonima città, nel 1987. Nel decennio successivo, da questa iniziativa nacquero una serie di piattaforme intergovernative, come la Strategia di protezione ambientale dell’Artico (1991), il Consiglio euro-artico di Barents (1993). Dalla prima, nel 1996, fu istituito il Consiglio artico, che promuove la cooperazione e il coordinamento tra gli Stati artici e i popoli indigeni, e di cui Russia e Usa sono membri permanenti, mentre la Cina è osservatore. Ne fa parte anche la Norvegia, che, inoltre, nell’amministrazione delle Isole Svalbard, segue le linee dell’omonimo trattato, siglato nel 1920 da 14 Stati, non tutti di area artica. L’esclusione di qualsiasi discriminazione tra le popolazioni dell’arcipelago prevista dall’accordo, è stata la molla che ha fatto scattare una deroga a quinto pacchetto di sanzioni europee contro la Russia. Ferma restando la chiusura dei porti alle navi battenti bandiera russa nell’arcipelago, quindi, saranno esclusi da questa misura pescherecci e imbarcazioni per il soccorso e la ricerca marittimi.
Quale futuro per il Consiglio dell’Artico?
Il caso delle Svalbarg, dunque, pone interrogativi non solo su una possibile nuova militarizzazione dell’Artico, ma anche sulle gravi ripercussioni economiche, energetiche e ambientali (la cooperazione globale è essenziale per affrontare in modo efficace il cambiamento climatico) del deterioramento delle relazioni tra Washington, Mosca e Pechino. Le prime due, d’altronde, hanno già condotto la loro guerra fredda anche sul fronte del polo Nord, e, mentre la Russia estrae gas e petrolio dall’Artico sin dall’epoca sovietica, gli Usa hanno autorizzato le trivellazioni in Alaska (la loro porzione di Artico) “solo” durante l’amministrazione dell’ex presidente Donald Trump. A livello di medie potenze regionali, inoltre, particolarmente assertivo è il Canada, che detiene la maggior flotta di spaccaghiaccio dopo la Russia. Frattanto, soprattutto nell’ultimo decennio, la Cina ha rivolto al polo Nord un’attenzione crescente, fino a includerla nell’iniziativa delle nuove vie della seta (Bri): la rotta polare, infatti, abbrevierebbe notevolmente il percorso rispetto a quella che passa per l’Oceano indiano (15.100 km contro 19.700 km). Anche per questo, Washington negli ultimi anni ha dimostrato un rinnovato interesse strategico per la Groenlandia, formalmente appartenente al Regno di Danimarca, ma di fatto bastione degli Usa. Il punto di partenza per la proiezione della potenza statunitense è dunque la base militare di Thule, territorio acquistato da Washington nel 1953, che Trump voleva ampliare. Il suo successore Joe Biden, invece, sembra maggiormente interessato alle riserve minerarie della Groenlandia, soprattutto terre rare e altre materie prime critiche. Un tema che rischia di suscitare tensioni tra le popolazioni locali, come è accaduto alle elezioni parlamentari groenlandesi del 2021, quando il partito di sinistra ambientalista Inuit Ataqatigiit ha vinto sostanzialmente per aver guidato le proteste contro l’apertura di una miniera di terre rare e uranio.
Materie prime: polo critico
Il tema del controllo delle materie prime dell’Artico era stato affrontato, peraltro, nel 2012, al vertice del Consiglio artico di Toronto, nel quale era prevalsa la linea della limitazione dell’accesso a paesi “esterni”, portata avanti soprattutto da Canada e Russia. La graduale riduzione dell’area coperta da ghiacci, del resto, ha reso il polo Nord ancora più appetibile. Infatti, oltre a gas e petrolio, il sottosuolo artico ospita giacimenti di terre rare, alcuni dei quali sono già produttivi in Alaska, Canada, Norvegia e nella penisola di Kola russa. Le riserve maggiori, tuttavia, si troverebbero in Groenlandia, che secondo le stime dell’Istituto statunitense per gli studi geologici (Usgs) e del Centro minerali e materie prime (MiMa) oscillano tra 1,5 e 38,5 milioni di tonnellate. Alcuni progetti di estrazione sono attivi, come quello di Kavenfjeld, nel complesso alcalino di Ilimaussaq, dove la società cinese Shenzen Resource HoldingCo. Ltd conduce una multinazionale con il 12% delle azioni. In altri progetti, sono implicati Australia, Gran Bretagna, Usa, Repubblica ceca e Canada. Nel 2020, di conseguenza, anche la Russia si è lanciata nella caccia alle terre rare nell’Artico, aumentando gli investimenti e creando un’alleanza di sei società industriali, ciascuna con un suo progetto di estrazione e lavorazione. Gli Usa, di contro, concentrano i loro sforzi sulla Groenlandia. In tal senso, la proposta di Trump, nel 2019, di acquistare la Groenlandia dalla Danimarca, traduceva un interesse strategico statunitense nella regione: lo stesso anno il Dipartimento di Stato Usa e il Ministero delle Risorse minerarie e del Lavoro groenlandese hanno firmato il Memorandum of Understanding, con l’obiettivo di pianificare esplorazioni congiunte e accrescere i finanziamenti statunitensi nel settore. Washington, contestualmente, ha esercitato notevoli pressioni sul governo danese affinché respingesse offerte cinesi per la costruzione di basi navali e scali aeroportuali. Pechino, nondimeno, non solo è diventata la prima importatrice e raffinatrice mondiale di terre rare, ma ha anche sviluppato una filiera produttiva sostanzialmente autosufficiente, grazie ai cospicui finanziamenti statali alla ricerca. Così, mentre le rivalità tra Mosca, Pechino e Washington si acuiscono, l’Artico rischia di esserne il nuovo teatro e la questione del riscaldamento globale potrebbe essere messa in secondo piano da esigenze geostrategiche.