Finanza di guerra

Europa e Stati uniti rischiano la recessione, Africa e Medio Oriente la crisi alimentare, mentre la Cina è di nuovo alle prese con l’emergenza sanitaria

Tra la guerra e la spada di Damocle del Covid-19, aumentano i rischi di stagflazione nel mondo: le grandi potenze tremano e fanno scricchiolare il mercato globale

Previsioni turbolente

Tra il conflitto ucraino e la nuova ondata di Covid-19 in Cina, le previsioni relative all’economia e alla finanza globali nel 2022 e nel 2023 parlano di rischi di recessione in Europa, Russia e Stati uniti, del pericolo di una crisi alimentare in regioni come l’Africa e il Medio oriente, dipendenti dalle importazioni di grano da Mosca e Kiev, e di un possibile rallentamento nella crescita del prodotto interno lordo (Pil) cinese. Ad esempio, nel settore finanziario, le banche occidentali che operavano in Russia, esposte, complessivamente, per 86 miliardi di dollari, hanno già messo in conto perdite di oltre dieci miliardi di dollari. Tra i casi più seri, c’è quello dell’italiana UniCredit, che da 17 anni ha filiali in Russia, con 4.000 lavoratori e circa due milioni di clienti: mentre aveva accantonato 1,3 miliardi di dollari, rischia perdite fino a 5,5 miliardi di dollari. La perdita maggiore, tuttavia, potrebbe essere quella della banca statunitense Citigroup, che ha la maggiore esposizione diretta (quindi le maggiori perdite potenziali), pari a 3 miliardi di dollari. Contestualmente, anche se qualsiasi previsione di questo tipo non può che essere incerta, le stime del Fondo monetario internazionale (Fmi) sull’andamento del Pil mondiale nel 2022 e nel 2023 parlano di un rallentamento della crescita, anche rispetto ai dati dello scorso gennaio, di un aumento generalizzato dell’inflazione (spinta dai rincari di energia e generi alimentari) anche nelle economie considerate forti e di una crisi umanitaria alle porte per le economie più fragili. Quanto al Pil globale, ad esempio, mentre nel 2021 si prevedeva una crescita del 4,9% per l’anno successivo, a gennaio la stima era scesa al 4,4%, mentre nell’ultimo rapporto si è assestata al 3,6% (3,2% secondo la Banca mondiale).

Stagflazione e bombe sociali

A preoccupare gli esperti sono soprattutto le difficoltà in cui versano le due maggiori economie mondiali. A tal proposito, vale la pena osservare che la Cina, considerata quantitativamente la seconda potenza economica del pianeta dopo gli Usa, nel 2021 avrebbe in realtà superato questi ultimi di circa il 20%. Pechino, dunque, che per il 2022 aveva stimato una crescita del Pil del 5,5%, nel il primo trimestre di quest’anno ha registrato un aumento delle esportazioni attorno al 13,4%, dei profitti industriali di circa il 13,4% e un incremento degli investimenti esteri del 25,6%, mantenendo basso e costante il tasso di inflazione. Nondimeno, l’ultima ondata di casi di Covid-19 ha comportato blocchi e chiusure da parte delle autorità, che non solo hanno rallentato l’economia in generale, ma hanno reso incerte le stime sulla domanda mondiale di petrolio, in particolare per il 2022. Di qui, la decisione del colosso petrolifero saudita Saudi Aramco di abbassare il costo di vendita ufficiale del greggo Arab Light, destinato all’Asia. Inoltre, il governo cinese ha disposto un abbassamento dei tassi di interesse, che fa temere una fuga di capitali e un deprezzamento dello yuan. Gli Usa, invece, che tendono ad aumentare i tassi di interesse, soffrono per l’alto tasso di inflazione, che secondo il Fmi dovrebbe essere di circa il 7,4% per il 2022, salvo ricadute ulteriori dovute all’eventuale embargo alla Russia per gas e petrolio. Al momento, l’inflazione statunitense è all’8,5% (l’obiettivo del governo era portarla al 2%), ossia superiore a quelle di Unione europea (7,5%) e Regno unito (7%). In sostanza, nel blocco euro-atlantico inflazione e stagnazione economica riportano l’incubo della stagflazione, da cui non sarebbe immune neppure l’economia cinese.

I limiti dell’interdipendenza

Sul fronte opposto, tra i contraccolpi dell’interdipendenza tra le economie nel mercato globale, Medio Oriente e Africa settentrionale si preparano al rischio di crisi alimentare, con disastrose conseguenze sul tessuto sociale di paesi già afflitti da mali endemici e sempre sull’orlo dell’implosione politica. In Giordania, ad esempio, l’emergenza sanitaria da Covid-19 aveva indotto le autorità a sospendere il carcere per debiti nel marzo 2021, ma la fine della moratoria, prevista per il mese prossimo, suscita il timore che migliaia di persone possano finire in prigione. Con un tasso di disoccupazione del 25% (50% tra i giovani), i rincari dei generi alimentari rischiano di innescare una bomba sociale, che investirebbe in primo luogo non solo le fasce più deboli della popolazione, ma anche i rifugiati siriani e palestinesi, in molti costretti a ricorrere a prestiti per sopravvivere. A diffondere incertezza nel mondo degli affari, tuttavia, è anzitutto la possibilità di una frammentazione del mercato globale, favorita dagli effetti a catena delle sanzioni euroatlantiche imposte alla Russia, sempre più attratta nell’orbita, economica e geopolitica, dell’Asia. Ad esempio, l’idea di Mosca di imporre il pagamento in rubli delle forniture di gas e petrolio non è l’unica minaccia al monopolio del dollaro nel settore degi idrocarburi. Nella stessa direzione, infatti, va l’ipotesi ventilata dal gigante petrolifero saudita Saudi Aramco di incassare i proventi delle vendite di oro nero a Pechino in yuan. Nessuna minaccia seria, almeno per ora. Ma la messa in discussione del monopolio statunitense in un settore strategico come quello dell’energia potrebbe prefigurare assestamenti significativi nel medio termine.

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