Budapest non pagherà i costi della guerra in Ucraina: con questo mantra, il governo ungherese continua a porre il veto sull’embargo al petrolio russo
Europei con riserva, atlantisti purché sia nel loro interesse: non è solo l’Ungheria a mettere a repentaglio la credibilità dell’Europa come soggetto (geo)politico
Veto amico
Il 16 maggio, i ministri degli Esteri dei paesi membri dell’Unione europea (Ue), riuniti a Bruxelles, non sono riusciti a indurre l’Ungheria a non porre il veto alla proposta di embargo al petrolio russo, avanzata due settimane prima dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, nel «sesto pacchetto» di sanzioni contro Mosca. In fondo, come ha spiegato il capo della diplomazia europea Josep Borrell, un tale esito era previsto, anche se gli argomenti addotti da Budapest sono di natura economica e non politica. Nessuna divergenza di principio, dunque, ma per ottenere l’unanimità sul blocco alle importazioni del greggio russo, Bruxelles dovrà verosimilmente concedere un periodo di transizione più lungo non solo all’Ungheria, ma anche alla Repubblica ceca, alla Slovacchia e alla Bulgaria, per scongiurare la catastrofe economica in una congiuntura già difficile. Da parte sua, il ministro degli Esteri ungherese Péter Szijjártó ha chiarito ai suoi colleghi europei l’eventuale costo della transizione energetica di Budapest: «la Commissione europea ha creato un problema con una proposta, quindi è legittimo aspettarsi che l’Ungheria e il popolo ungherese diano una soluzione per finanziare gli investimenti e per compensare o prevenire aumenti di prezzo. Questo richiederebbe una completa modernizzazione della struttura energetica ungherese, per un valore che oscilla tra 15 e 18 miliardi di euro». Insomma, non proprio in linea con l’austerità degli anni passati, ma, come Bruxelles ben sa, per aver già remunerato lautamente la cooperazione della Turchia nella gestione dei rifugiati, ogni accordo richiede una contropartita, che può essere di natura geostrategica, economico finanziaria o entrambe al medesimo tempo.
Opposizione interna
Allo stato attuale, dunque, dal conflitto ucraino emergono due linee di frattura all’interno del blocco euroatlantico. La prima riguarda l’Organizzazione del trattato dell’Atlantico Nord (Nato), in seno alla quale la Turchia persegue i propri interessi strategici e, laddove le venga richiesto un contributo che esuli da questi ultimi, non esita a chiedere contropartite. La seconda, invece, riguarda l’Ue, che in passato ha avuto aspre controversie con il cosiddetto gruppo di Visegrád (piattaforma intergovernativa costituita da Polonia, Ungheria, Repubblica ceca e Slovacchia nel 1991, per gestire la transizione dopo l’implosione dell’Unione sovietica). Frizioni che sembravano dissipate dal metus hostilis, il «timore del nemico» russo, come dimostrano le recenti dichiarazioni della nuova presidente ungherese Katalin Novak a proposito della condanna dell’aggressione russa all’Ucraina e della disponibilità di Budapest a compiere sacrifici per la pace, a patto che il sacrificio degli ungheresi non sia maggiore di quello dei russi. Tuttavia, proprio nel momento in cui sia Washington, sia Bruxelles cercano di compattare il fronte euroatlantico, tali frizioni sembrano riemerse. Così, all’ultimo vertice dei ministri degli Esteri europei, il rappresentante lituano ha accusato l’Ungheria di «tenere in ostaggio» l’Ue, mentre il suo omologo ucraino ha invitato Bruxelles a «superare» il veto ungherese. Una terza frattura, infine, è costituita dalla polarizzazione della dialettica politica interna ai singoli paesi, con ripercussioni che, nelle zone dove convergono gli interessi geostrategici di più potenze mondiali e regionali, come i Balcani, potrebbero estendersi allo spazio regionale circostante. Ne è un esempio la contrapposizione, esplosa in Croazia, tra il presidente Zoran Milanović, esponente del partito socialista, e il primo ministro Andrej Plenković, che con lui ha rotto i rapporti alla fine di aprile, accusandolo di atteggiamenti filorussi.
Alleanze idiosincratiche
L’occasione della contesa, in realtà, erano state le illazioni di Milanović, secondo il quale il partito di Plenković, l’Unione democratica croata (Hdz), era legato ai servizi segreti della ex Jugoslavia socialista. Quanto alla posizione del presidente croato sul conflitto ucraino, secondo Plenković avrebbe complicato le relazioni internazionali di Zagabria, ragion per cui il primo ministro aveva assicurato che nessun esponente del governo avrebbe accettato di incontrarlo. Qualche giorno dopo la rottura, inoltre, Milanović aveva affermato che il parlamento croato non avrebbe dovuto ratificare l’adesione alla Nato di nessun paese, finché non fosse stata modificata la legge elettorale in Bosnia Erzegovina, garantendo un’adeguata rappresentanza alla componente croata. Immediata la reazione di Plenković, che aveva invitato il presidente a ripetere lo stesso discorso di fronte al presidente statunitense Joe Biden. Sembra dunque che la guerra in Ucraina stia facendo emergere le incongruenze geostrategiche su cui si fondano gli attuali sistemi di alleanze, non solo militari, come la Nato, ma anche economiche, come l’Ue. Infatti, il peso geopolitico conquistato da paesi come la Turchia o gli Stati del gruppo di Visegrád offre loro l’occasione di far valere le proprie rivendicazioni, anche quando queste collidono con gli interessi dell’Ue o degli Usa. Ad esempio, già nel 2015 e nel 2017, il gruppo di Visegrád aveva rifiutato il meccanismo europeo delle quote di riufugiati, sostenendo invece la volontarietà dell’accoglienza. Inoltre, nel 2016, aveva tentato di ampliare il proprio orizzonte geopolitico, lanciando l’Iniziativa dei tre mari, assieme a Estonia, Lettonia, Lituania, Austria, Slovenia, Croazia, Romania e Bulgaria. Così, mentre Ankara punta a capeggiare un blocco che dall’Africa settentrionale si estende ai Balcani, al Medio Oriente e all’Asia centrale, Budapest si immagina al centro di una compagine europea orientale quasi antagonista al nucleo originario dell’Unione europea.