Bombardato il campo profughi di Makhmour
Erdogan porta avanti il genocidio dei curdi e i suoi progetti di espansione, bombardando civili e campi profughi in una nuova campagna iniziata il 17 aprile. La comunità internazionale, restando in silenzio, acconsente. L’Isis confessa l’alleanza con i servizi di intelligence turchi, ma anche l’Iraq è alleato della Turchia.
Droni turchi hanno bombardato di nuovo il campo profughi di Makhmour, nel nord dell’Iraq, uccidendo un ragazzo e ferendo altre persone. Nel campo vivono 12000 esuli curdi fuggiti dai loro villaggi distrutti dallo stato turco negli anni ’90 ed è ufficialmente riconosciuto dall’UNHCR. I residenti di Makhmour, dopo l’attacco, si sono diretti all’ufficio delle Nazioni Unite del campo profughi per protestare sul loro silenzio. L’edificio delle Nazioni Unite è abbandonato dal 2014, quando l’Isis ha preso il controllo del campo per poco più di un mese, prima di essere respinto dal PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, il cui leader Abdullah Ocalan è detenuto in una prigione di massima sicurezza nell’isola di Imrali dal 1999.
Un altro attacco è stato sferrato nel distretto Chamchamal di Slemani, nel Kurdistan iracheno. Qui i missili turchi hanno colpito due auto, uccidendo cinque persone, di cui due civili e tre guerriglieri del PKK. Un portavoce del PKK ha confermato che i combattenti della resistenza curda sono deceduti dopo essere rimasti gravemente feriti nell’attacco. “Quando i civili sono corsi ad aiutarli e li hanno portati in ospedale, anche loro sono stati presi di mira dai droni. Due civili hanno perso la vita, insieme ai tre guerriglieri feriti”, ha detto.
Comandante Isis confessa di eseguire gli ordini della Turchia
Nella notte tra il 20 e il 21 gennaio, l’Isis ha attaccato la prigione di Sina’a, che ospita circa 5.000 detenuti dell’Isis, con diverse autobombe che hanno permesso ai detenuti di scatenare una rivolta, mentre all’esterno, in un attacco coordinato, centinaia di membri dell’organizzazione islamica, appostati negli edifici civili, bersagliavano le forze di sicurezza siriane. Le SDF, Forze democratiche siriane, hanno immediatamente inviato numerosi rinforzi per chiudere il quartiere e forze speciali per catturare i prigionieri evasi. Il jihadista comandante dell’Isis Abdullah Ismail Ahmad, catturato il 14 aprile dalle SDF, è stato coinvolto in quel tentativo di assalto per liberare i combattenti dell’Isis. Secondo le sue dichiarazioni, l’ordine dell’attacco è arrivato direttamente dal servizio di intelligence turco MIT. Commentando i preparativi, Ahmad ha dichiarato che è stata la Turchia a dare l’ordine e a fornire le armi per l’attacco: “Abbiamo ricevuto l’ordine dalla persona di nome Abdul Aziz e abbiamo lanciato l’operazione. L’obiettivo era sconfiggere le SDF. Abbiamo preparato armi, munizioni e trappole esplosive. Per documentare la nostra operazione, abbiamo installato delle telecamere. Tre gruppi hanno preparato questa operazione. Ogni gruppo era composto da due persone. A queste persone sono state date le armi, le trappole esplosive e le telecamere”. Ha inoltre affermato che le riunioni per preparare l’attacco si sono svolte nelle aree occupate dai turchi nel nord e nell’est della Siria. “Alcuni individui in Turchia hanno finanziato le cellule Isis nelle aree controllate dall’amministrazione autonoma. Questi individui hanno stretti legami con le agenzie di sicurezza turche. Sia l’attacco che le attività generali dell’Isis nella regione sono finanziate da alti funzionari della sicurezza” ha affermato.
Il genocidio degli ezidi, liberati i giornalisti internazionali che lo documentavano
Erdogan opera anche con la complicità dell’Iraq. Parallelamente all’invasione turca, infatti, l’esercito iracheno ha attaccato gli ezidi, sopravvissuti nel 2014 al genocidio dello Stato Islamico per smantellare la loro amministrazione autonoma, un sistema organizzativo sviluppato per dare alla gente la possibilità di non dover lasciare la propria patria e di essere in grado di difendersi. Tutto ciò avviene con la complicità del partito di Barzani, il KDP. Il 20 aprile scorso, la giornalista tedesca Marlene Förster e il collega sloveno Matej Kavčič, entrambi di 29 anni, erano stati arrestati a un posto di blocco a Shengal, pochi giorni prima che l’esercito iracheno lanciasse un’offensiva contro la città. Shengal (Sinjar in iracheno) si trova nel nord dell’Iraq, ma è rivendicata dal Kurdistan. Marlene Förster e Matej Kavčič sono stati espulsi dal Paese dopo un mese, senza alcuna spiegazione sia sulla loro detenzione che sull’espulsione. Il rilascio è avvenuto quando la pressione mediatica sul caso, in Germania, stava aumentando, grazie alla mamma e alle amiche di Marlene Förster, che hanno raccolto più di 50 mila firme e coinvolto organizzazioni e personalità per chiedere al Ministero degli Esteri tedesco di intervenire. L’espulsione è avvenuta in un momento in cui l’attenzione del pubblico tedesco sul caso stava aumentando. “Il fatto che alla fine ci sia voluto così tanto tempo è anche responsabilità del governo tedesco. Sorge la domanda se il governo tedesco stesse facendo un favore alla Turchia e a Erdoğan in particolare, con la loro riluttanza”, ha dichiarato Malte Buchholz, amica e coinquilina di Marlene Förster, che ha posto delle domande su cui si vuole fare luce. “Il caso continua a sollevare molti interrogativi: come è avvenuta la deportazione? Continuerà ad essere una procedura normale in Iraq, la detenzione di giornalisti internazionali? Come valuta il governo tedesco questo attacco alla libertà di stampa? Qual è il ruolo del Ministero degli Esteri federale, perché le autorità tedesche hanno agito così tardi? Che ruolo hanno giocato le relazioni tedesco-turche?”.
Rifugiati politici uccisi
A Sulaymaniyyah, in Başûr, Iraq, il rifugiato politico Zeki Çelebi è stato assassinato a colpi di pistola in pieno centro. Zeki Çelebi era fuggito dal Bakur 12 anni fa, a causa delle persecuzioni dello stato turco e, dopo anni di carcere in Turchia, aveva aperto un ristorante a Sulaymaniyyah, città in cui viveva con la famiglia, la moglie e due figli. In meno di un anno questo è il quarto attacco mirato dei servizi turchi contro rifugiati politici. L’ultimo, Hisen Tureli, è stato ferito a Dohuk solo qualche ora dopo l’omicidio di Zeki, mentre a settembre era stato ucciso Yasin Bulut, del comitato delle famiglie dei martiri.
Gli obiettivi di Erdogan
La nuova offensiva di Erdogan è stata lanciata il 17 aprile, presumendo che l’attenzione della comunità internazionale fosse completamente concentrata sulla guerra in Ucraina. La Turchia sta utilizzando la richiesta di ingresso nella NATO da parte di Svezia e Finlandia come leva politica, Erdogan minaccia di porre il veto se non verranno soddisfatte le sue condizioni. Ankara, inoltre, pretende dagli Stati Uniti la ripresa del programma di consegna degli aerei F35 che Washington ha sospeso dopo l’acquisizione turca del sistema di difesa aerea russo S-400, il via libera all’acquisto di quaranta F16 statunitensi e la cancellazione delle sanzioni introdotte per i legami militari e commerciali con Mosca. Erdogan ha appena annunciato l’inizio di una nuova invasione in Rojava, volta ad occupare 30km lungo tutto il confine, per completare finalmente il progetto della “cintura araba” e cacciare i curdi da tutte le città sul confine come Qamislo, Derik, Amuda e Kobane. Attraverso la guerra, la Turchia sta cercando di imporre il suo predominio politico e militare fino a Mosul e Kirkuk, e punta a raggiungere i confini del Patto Nazionale, ratificato un secolo fa dall’ultimo parlamento ottomano.