Dopo la sparatoria in una scuola texana, il presidente Usa Joe Biden parla di leggi più severe per limitare la diffusione delle armi
Ma, come la mafia, anche questo fenomeno è un «fatto culturale», che si inscrive in un contesto di logoramento sociale e di sfiducia generalizzata nelle istituzioni
Grilletto facile
Come ogni presidente degli Stati uniti che abbia assistito a una sparatoria come quella di Uvalde, in Texas, anche Joe Biden ha espresso vicinanza alle famiglie dei defunti, indignazione, esasperazione e intenzione di agire per non dover assistere, in futuro, a «un altro massacro». Con parole simili, diverse personalità del mondo dello spettacolo e dello sport hanno commentato l’accaduto, mentre il senatore repubblicano del Texas Ted Cruz ha criticato il tentativo di «approfittare» di una tragedia per «prendersela con il secondo emendamento» (che riconosce il diritto alla difesa personale, anche ricorrendo ad armi da fuoco), rivolto a «cittadini che rispettano la legge». Biden, inoltre, ha sottolineato il trauma subìto dai bambini che hanno assistito alla sparatoria nella loro scuola elementare, assistendo alla morte dei loro compagni e di due insegnanti «come su un campo di battaglia». Parole dure sono giunte, inoltre, dall’ex presidente Barack Obama, che nel 2012, da presidente, dopo il massacro nella scuola elementare Sandy Hook (Newtown, Connecticut), aveva già esortato il Congresso a votare una legge che limitasse, o almeno controllasse, la diffusione di massa delle armi. «Quasi dieci anni dopo Sandy Hook», ha commentato Obama, «il nostro paese è paralizzato non dalla paura, ma da una lobby delle armi e da un partito (i repubblicani, N.d.R.) che non hanno mostrato alcuna volontà di agire in qualsiasi modo per contribuire a impedire queste tragedie». Del resto, Biden, nel suo discorso, ha posto due interrogativi urgenti dal punto di vista della tenuta delle istituzioni e della società statunitensi: «sparatorie di massa del genere accadono raramente altrove nel mondo, perché?» e «perché siamo disposti a convivere con questa carneficina?».
Culto e cultura delle armi
Sul secondo interrogativo, in molti, tra analisti e osservatori, chiamano in causa il peso politico della lobby delle armi, che, a sua volta, è legato alla cultura statunitense, per la quale il principio dell’autodifesa, oltre a essere sancito dalla costituzione, è uno dei fondamenti dell’organizzazione della collettività, peraltro fortemente legato al concetto di libertà. Eppure, secondo lo storico André Kaspi, che nel 2019 ha pubblicato il saggio La nazione armata, armi al centro della cultura americana, la società statunitense è «brutale, certo, ma relativamente tranquilla, e i massacri restano veramente un’eccezione». In secondo luogo, se un’analisi del Washington Post, nel 2015, già concludeva che negli Usa ci sono più armi da fuoco tra i civili (357 milioni) che persone (317 milioni), Kaspi osserva che, in realtà, solo un terzo della popolazione statunitense possiede armi e che, di solito, gli autori dei massacri nei luoghi pubblici (non solo scuole, ma anche supermercati, mercatini o chiese) ne portano con sé più di una. Dunque, chi ne possiede, di norma non si accontenta di averne una sola. Le ragioni sono molteplici, dalla tradizione venatoria alla passione per gli sport da tiro, le cui radici affondano nella fase della colonizzazione, quando «per sopravvivere» era necessario tenere con sé un’arma, per difendersi da animali tanto quadrupedi, quanto bipedi. A proposito delle armi d’assalto, invece, lo stesso Biden, che nel 1994 (come presidente della Commissione) aveva spinto per l’approvazione al Congresso di una legge per limitarne la diffusione, ha dichiarato che, finché questa era in vigore, le stragi erano diminuite, per poi triplicare di nuovo quando fu lasciata decadere, nel 2004.
Ipotesi di complotto
Tuttavia, per approvare una legge simile, mancherebbero i voti in Senato e qualunque tentativo in tal senso si scontrerebbe con l’opposizione della potente lobby National Rifle Association, che, alla vigilia dell’insediamento di Biden alla Casa bianca, aveva annunciato di aver intrapreso la procedura di bancarotta volontaria e l’abbandono della sede di New York (dove la procura federale aveva avviato un’inchiesta sui suoi vertici per distrazione di fondi), trasferendosi in Texas, lo Stato dove circola il maggior numero di armi. Anche per questo, in molti ritengono che limitare la diffusione nelle armi negli Usa sia una mera utopia, concepita sull’onda della commozione suscitata dalle vittime dei massacri, soprattutto se bambini, ma destinata a sfumare una volta che si siano calmate le acque. Di contro, i rischi che la circolazione di armi comporta aumentano, con l’aggravarsi delle tensioni sociali che, a parte manifestazioni eclatanti come l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021, continuano a serpeggiare, alimentate dall’inflazione e dal rallentamento della crescita economica in due anni di pandemia. Un malcontento che, con un tasso di povertà del 14,4% a febbraio 2022 e in mancanza di forze politiche in grado di rappresentarne le esigenze, rischia di scatenarsi in violenza di strada e in scontri tra bande rivali. Eppure, la reazione più comune alle notizie dei massacri nei luoghi pubblici e la convinzione che armarsi dia la possibilità di difendersi. Una mentalità che emerge anche dalla facilità con cui gli Usa armano paesi e gruppi alleati contro paesi e gruppi nemici. Torna, frattanto, lo spettro del pericolo islamico. Il Federal Bureau of Investigation (Fbi) sostiene di aver sventato un piano, concepito da un simpatizzante del cosiddetto Stati islamico (Isis o Daech), per assassinare l’ex presidente George W. Bush. Il sospettato, arrestato il 24 maggio, era entrato negli Usa con visto turistico nel 2020 e dal 2021 era in attesa di risposta alla richiesta di asilo politico, ma l’Fbi lo avrebbe rintracciato attraverso WhatsApp,