Il rapporto “Disuguitalia” elaborato dalla confederazione di organizzazioni no profit che contrasta la povertà ha descritto una situazione critica per il lavoro in Italia
La recente riforma del mercato del lavoro spagnolo proposta come modello per risolvere i problemi italiani
“Sottopagato, discontinuo, sfruttato, insicuro, dal valore sociale scarsamente riconosciuto”. Comincia con una serie di constatazioni sulla scarsa valutazione che viene data al lavoro in Italia il rapporto “Disuguitalia” elaborato della Oxfam sulla condizione occupazionale dello stivale.
Un paese deindustrializzato, dove sono aumentate le occupazioni in settori caratterizzati da bassa produttività del lavoro e con salari ridotti. Nel quale sono presenti una grande quantità di piccole e medie imprese poco innovative, scarsamente propense all’adozione delle tecnologie digitali, con un forte sottoutilizzo e un ridotto investimento nel capitale umano. La descrizione dell’Italia realizzata dalla confederazione di organizzazioni no profit che hanno come obiettivo la riduzione delle ingiustizie e della povertà non è certo edificante. Oxfam ha rilevato poi altri problemi come la moltiplicazione dei contratti atipici, le esternalizzazioni di attività che hanno portato a contratti meno stabili e l’aumento incontrollato dei contratti collettivi nazionali. Un fenomeno quest’ultimo, che ha portato a notevoli differenze di retribuzione e di diritti economici nello stesso settore professionale.
L’aumento del lavoro povero e la questione di genere
Il rapporto ha sciorinato dati allarmanti per il lavoro. Come il fenomeno dei working poor, ovvero la condizione di povertà di persone che lavorano. Un problema che comincia ad avere una certa consistenza. Nel 2019 l’11,8% dei lavoratori italiani era a rischio povertà. Una percentuale di 2,5 punti superiore alla media europea. Un dato aumentato negli ultimi anni.
La ricerca condotta da Oxfam ha mostrato come dal 2006 al 2017 i working poor sono sono passati dal 10,3% al 13,2% della forza lavorativa. Il lavoro povero ha riguardato il 12% delle persone con un contratto di lavoro dipendente, il 17% degli autonomi e il 19,4% dei lavoratori part-time. A pesare è anche la condizione familiare: versava in condizioni di povertà il 22,1% delle persone con un solo reddito e il 7% delle famiglie con due redditi.
Il sesso in Italia nel 2017 rimaneva ancora un fattore discriminante rispetto al reddito percepito. In quell’anno la quota di lowwage workers tra le donne si assestava al 27,8% , mentre tra gli uomini il valore era pari al 16,5%.
L’aumento dei contratti a tempo parziale
Nell’arco temporale di 15 anni che va dal 2005 al 2018 sono aumentate le persone con contratti che prevedono orari inferiori rispetto a quelli stabiliti dai contratti a tempo indeterminato: la quota è raddoppiata, con un passaggio dal 15 al 30%. Le donne inquadrate con questa tipologia di accordo sono aumentate dal 31 al 47%. Gli uomini dal 6% al 20%. I contratti a tempo determinato sono saliti: erano il 20% del totale nel 2016, sono diventati il 26% del 2018. Secondo l’autore del rapporto: ”La pluridecennale stagnazione salariale e il ricorso sempre più frequente a contratti non standard ha portato a un incremento della quota di low-wage workers, passati dal 27,9% del 2005 al 31,1% del 2018. Il fenomeno della bassa retribuzione interessava nel 2018 quasi un dipendente privato su tre (oltre 5 milioni in termini assoluti) e l’incremento risultava ancor più intenso con riferimento alle retribuzioni settimanali”.
I giovani, opportunità o problema
Il rapporto di Oxfam ha analizzato anche la questione giovanile. Le statistiche provenienti dal mondo del lavoro hanno mostrato come l’occupazione delle nove generazioni sia calata negli ultimi 15 anni. Le persone tra i 15 e i 24 anni con un impiego sono passate dal 25,7% nel 2005 al 16,8% nel 2020. Mentre quelle tra i 30 e i 34 anni sono scese dal 74,5% del 2005 al 66,9% nel 2020. Numeri in controtendenza a quelli della fascia di età tra i 55 e i 64 anni di età, che ha visto salire di 23 punti percentuali il tasso di occupazione, passato dal 31,4% del 2005 al 54,2% nel 2019.
Secondo l’autore del rapporto o un’intervista la causa è da ricercare nella scarsa propensione delle imprese italiane all’innovazione, che si accompagna al ridotto investimento nel capitale umano specifico dei giovani. Questa caratteristica delle aziende del bel paese, unita alla compressione del costo del lavoro, causa nei giovani instabilità e debolezza contrattuale e salari più bassi. Un ruolo infine è rivestito anche dalle carene dei centri di formazione professionale, non allineati con le capacità richieste dal settore produttivo, e dai centri per l’impiego.
Le ricette dell’associazione per migliorare la condizione occupazionale
Nel rapporto sono state fornite delle soluzioni per migliorare le condizioni lavorative degli italiani. Come il rafforzamento della disincentivazione dei contratti a termine, già avviato con il decreto “Dignità”. E riforme che possano prendere spunto dal modello spagnolo, che ha limitato le esternalizzazioni del lavoro tramite appalti a imprese multiservizi, ha ribadito il primato della contrattazione nazionale su quella decentrata, ha ridotto i contratti a tempo determinato e normalizzato lo strumento degli ammortizzatori sociali.
Marco Orlando