Turchia, Egitto, Cipro, Israele, ma soprattutto le rispettive «zone economiche esclusive» hanno riconquistato una certa centralità strategica
Tra equilibrismi geopolitici e propaganda ideologica, la difficoltà per questi paesi di costituire un polo unico li espone alle mire geoeconomiche delle potenze maggiori
Emancipazione tesa
Tra le varie conseguenze a breve termine del conflitto ucraino, si annovera il consistente rilievo mediatico attribuito dalle cancellerie europee all’impegno a trovare rapidamente validi sostituti della Russia come fornitore di gas e petrolio, a partire dal Mediterraneo orientale. In entrambi i casi, tuttavia, il rischio è che tale tentativo di emancipazione inneschi nuove tensioni in scenari regionali già di per sé complessi. Com’è di recente accaduto, ad esempio, alle relazioni tra Algeria e Marocco, il cui inasprimento non può ascriversi esclusivamente alla lettera inviata dal primo ministro spagnolo Pedro Sanchez al re del Marocco a proposito del Sahara occidentale: la visita del presidente del Consiglio italiano Mario Draghi ad Algeri, ad aprile, ha creato qualche malumore tra Roma e Madrid, le cui relazioni con l’Algeria si erano, nel frattempo deteriorate. Ancor più complesso (e delicato) è l’intreccio di equilibri nel Mediterraneo orientale, in particolare perché coinvolge direttamente il Medio Oriente, in una fase di metamorfosi convulsa delle relazioni tra i paesi della regione. Contestualmente, la suddivisione delle acque tra Turchia, Cipro, Egitto e Israele in «zone economiche esclusive» (Zee) ha innescato controversie più o meno latenti tra i rispettivi governi. Finché, nel 2019, Ankara ha spinto le ricerche di gas nella zona di competenza di Nicosia (parte greca di Cipro), malgrado le licenze già concessa da quest’ultima a due compagnie, l’italiana Eni e la francese Total. A gennaio 2020, quindi, sono state Cipro, Grecia e Israele a prendere l’iniziativa, siglando un accordo per la realizzazione del gasdotto EastMed, tornato in auge a gennaio 2022. Tuttavia, i protagonisti indiscussi di questa partita a scacchi energetica sono Israele ed Egitto.
Conflitto di competenze
Anche per questo, la Turchia, fiutando l’opportunità strategico-energetica, sta tentando di migliorare le proprie relazioni sia con le monarchie del Golfo, sia con l’Egitto, sia con Israele. Anzitutto, Ankara, che già gode di ottimi rapporti con il Qatar, sta avviando accordi di cooperazione con Arabia Saudita ed Emirati arabi uniti (Eau). In primo luogo, Riyadh ha avviato trattative con la società turca Baykar per acquistare droni TB2, finora esportati in venti paesi. In secondo luogo, il 27 maggio, il ministro degli Esteri emiratino è volato in Turchia, manifestando l’interesse di Abu Dhabi a investire nel settore energetico, nei porti e nelle ferrovie. Con il Cairo, invece, il processo di «normalizzazione» con Ankara appare ancora lungo, mentre, il 27 maggio, il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry ha incontrato il suo omologo cipriota Ioannis Kasoulidis, per rafforzare la cooperazione bilaterale in vista della stabilità nel Mediterraneo orientale. Una mossa che potrebbe dunque ostacolare il riavvicinamento tra Egitto e Turchia. Qanto a Tel Aviv, infine, la stampa turca ha dato particolare enfasi al viaggio del ministro degli Esteri Mevlüt Çavuşoğlu in Israele e Palestina, il 23 e 24 maggio, con il duplice obiettivo di instaurare relazioni economiche e diplomatiche con il primo e a riaffermare il proprio sostegno ideologico alla seconda. Tale equilibrismo, in fondo, permette ad Ankara di attrarre capitali stranieri per risollevare l’economia e, al contempo, di guadagnare peso geopolitico, mentre offre a Erdoğan un’opportunità per guadagnare consensi sullo scacchiere politico interno. Nondimeno le tensioni israelo-palestinesi innescate il 29 maggio dalla «marcia della bandiera» e, ancor prima, dalle continue incursioni dei coloni e delle truppe di Israele in Cisgiordania, rischiano di stravolgere i piani turchi.
Identità storica e opportunismo geopolitico
Quindi, tra Mediterraneo orientale e Medio oriente, la Turchia porta avanti la sua trama di relazioni. Il 23 maggio, Erdoğan ha annunciato i preparativi di una nuova incursione in Siria nord-orientale, contro i curdi delle Unità di protezione popolare (Ypg), sostenuti da Europa e Usa, contro il cosiddetto Stato islamico (Isis o Daech). Una minaccia considerata «seria» sia dai curdi siriani, sia da Washington, che ha auspicato la fine delle campagne belliche turche in Siria, in quanto minano la stabilità regionale e i progressi della Coalizione internazionale contro Daech. Intanto, su sollecitazione degli abitanti di Tadef, le autorità siriane hanno bloccato gli scavi condotti da aprile dall’esercito turco, per realizzare una trincea che avrebbe diviso la città dalle campagne. Una situazione spinosa, se si considera che la Turchia è un passaggio essenziale per il corridoio umanitario verso la Siria. Il 10 luglio, infatti, scadrà l’autorizzazione del passaggio per il valico di frontiera turco-siriano di Bab al-Hawa, che le Nazioni unite hanno esortato Ankara a rinnovare. Per la Turchia, invece, la creazione di una zona cuscinetto nel Nord della Siria, da un lato faciliterebbe la repressione della sua minoranza curda, dall’altro consentirebbe di ricollocare i profughi siriani che, nel suo territorio, vivono nel disagio economico. D’altro canto, se per l’Europa gas e petrolio sono una questione di (in)dipendenza energetica, per la Turchia, che non ha imposto sanzioni economiche alla Russia, mentre è essa stessa colpita dalle sanzioni statunitensi, è un altro potenziale strumento di ricatto geostrategico.