Dopo l’accordo europeo sul sesto pacchetto di sanzioni contro la Russia su greggio e derivati, i mercati registrano un’impennata dei prezzi dell’oro nero
Il ministro degli Esteri russo vola a Riyadh per incontrare i rappresentanti del Consiglio di cooperazione del Golfo, mentre Mosca guarda sempre più ai mercati asiatici
Verso la metamorfosi?
Da un lato l’accordo di Bruxelles sull’embargo parziale a petrolio e prodotti petroliferi russi, dall’altro gli spiragli di riaperture in Cina dopo la battuta d’arresto causata da una nuova ondata di Covid-19, lasciando presagire un nuovo aumento della domanda: il mercato del petrolio sembra oscillare tra il caos provocato dai continui assestamenti geopolitici mediorientali e la frantumazione in almeno due blocchi paralleli. In effetti, il 31 maggio, dopo l’intesa europea sul blocco alle importazioni di petrolio russo tramite nave, il prezzo del Brent (utilizzato come riferimento mondiale) è salito a 123,55 dollari al barile, mentre il costo del West Texas Intermediate (WTI, utilizzato come riferimento negli Stati uniti) è giunto prima a 118,64 dollari al barile, per poi attestarsi sui 119,98. In entrambi i casi, si tratta di un nuovo record, dopo due mesi consecutivi di rialzi, ma i mercati sono rimasti in attesa dei dettagli del sesto pacchetto di sanzioni europee, di maggiori indicazioni sull’eventuale futura estensione dell’embargo al petrolio che arriva tramite gasdotto e dei risultati dei colloqui tra il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov e i rappresentanti del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg). Infatti, nel pomeriggio dello stesso giorno, indiscrezioni circa una possibile sospensione di Mosca dall’Opep+ (l’Organizzazione dei paesi produttori di petrolio, più un’altra decina di paesi, tra cui la Russia), hanno spinto in basso i prezzi dell’oro nero, in particolare del WTI, sceso a 114,67 dollari al barile. Una tale misura, del resto, potrebbe indurre Arabia saudita ed Emirati arabi uniti (Eau) a sfruttare la loro capacità di produzione aggiuntiva, venendo meno il vincolo dell’accordo con la Russia, e la relativa garanzia dei suoi interessi.
Vertici incrociati
Il 31 maggio, Lavrov, dopo una breve visita in Bahrein, è giunto a Riyadh, sede del quartier generale del Ccg, per l’incontro del 1 giugno con i suoi omologhi di Arabia saudita, Eau, Oman, Kuwait, Qatar e Bahrein. Al termine della giornata, infine, videoconferenza con il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba. Anche se ufficialmente non sono emerse informazioni dettagliate circa l’ordine del giorno, è probabile che si tratti di colloqui preliminari in vista del vertice di Vienna dell’Opep+, del 1 giugno. Infatti, tra i principali temi affrontati, ci sono il commercio (comprese garanzie sulla fornitura di prodotti agricoli da parte della Russia agli Stati mediorientali), la quantità di petrolio prodotta e da produrre, e, soprattutto, la posizione geopolitica regionale dell’Iran, importante fornitore mondiale di petrolio, ma escluso dal mercato globale dalle sanzioni statunitensi. Del resto, il 25 maggio, il vice primo ministro russo Alexander Novak è partito per Tehran con una delegazione di economisti, per rafforzare le relazioni bilaterali soprattutto nei settori commerciale ed energetico, ma anche nel sistema bancario, nella rete ferroviaria, nell’agricoltura e nell’industria. I paesi del Ccg, dal canto loro, sono rimasti finora neutrali nel conflitto ucraino, sia esprimendo un’equidistanza diplomatica nelle sedi dell’Organizzazione delle nazioni unite, sia mediante il rifiuto di aumentare la produzione di petrolio per abbassare i prezzi sul mercato mondiale. La loro posizione, peraltro, è rimasta invariata anche dopo i molteplici appelli euroatlantici a fare fronte comune contro la Russia. L’ultimo dei quali il 30 maggio, quando il segretario di Stato Usa Antony Blinken ha esortato telefonicamente il suo omologo saudita, Faisal bin Farhan Al Saud, per rimarcare l’importanza di un sostegno internazionale a Kiev.
Piazze asiatiche
Se, sul piano geopolitico, le relazioni russo-iraniane possono irritare le monarchie del Golfo, soprattutto Riyadh, dal punto di vista economico, Tehran ha registrato, dall’inizio della guerra in Ucraina, una sensibile riduzione delle sue esportazioni di greggio in Cina, per via della drastica diminuzione dei prezzi del petrolio russo, che ha attratto diversi importatori asiatici. Oltre a Pechino, che, finita l’emergenza sanitaria e ripresa la produzione, lascia intendere un imminente aumento della domanda di oro nero, c’è l’India, anche se si prevede una leggera flessione per il prossimo mese. Trasportato via nave, il greggio di Mosca compie un percorso più lungo verso i porti asiatici, che non verso l’Europa, anche perché i suoi porti sono situati a Ovest. Un caso limite è rappresentato dal percorso verso la Cina, che impiega circa due mesi. Nondimeno, anche in previsione di un embargo più severo da parte dell’Europa, la Russia guarda all’Asia come a un valido sostituto. Nel mese di aprile, ad esempio, quest’ultima ha superato per la prima volta il vecchio continente come acquirente del petrolio russo, mentre alla fine di maggio Mosca ha inviato in Asia circa 64 milioni di barili di oro nero, a fronte dei 19 venduti alla fine di febbraio. In sostanza, l’invasione russa dell’Ucraina ha innescato una serie di reazioni nei mercati petroliferi, che hanno avuto ripercussioni non solo sull’assetto geopolitico mediorientale (stallo nei negoziati internazionali sul programma nucleare iraniano, attriti nel Mediterraneo orientale, mutazione degli equilibri tra le potenze regionali), ma anche sull’equilibrio politico interno dei singoli paesi. In particolare, in Iraq, dove la crisi politica corre di pari passo con l’intenzione, dichiarata dal governo, di attrarre investimenti stranieri nel settore petrolifero, con l’obiettivo di esportare otto milioni di barili di petrolio al giorno, entro la fne del 2027.