(Dis)ordini mondiali. Mercato globale e guerra: frantumazione o metamorfosi

Il predominio del tema della guerra all’ultimo vertice di Davos la dice lunga, e non solo a causa dell’inquietudine per le sue ripercussioni sui mercati internazionali

Diversi analisti temono una frammentazione del mercato globale secondo la logica delle alleanze, a meno di nuovi impulsi verso un sistema multipolare

Il vertice dell’insicurezza

Affondando le sue radici nei profondi cambiamenti degli equilibri geopolitici, la guerra in Ucraina si sta ripercuotendo anche sulle dinamiche del mercato globale, spingendo verso una sua frantumazione in più mercati regionali, la cui composizione dipende grosso modo dalla logica delle alleanze geostrategiche. L’inquietudine per le conseguenze di una tale evoluzione è emersa, infatti, all’ultimo vertice del Forum economico mondiale di Davos, che, rispetto alle edizioni precedenti, si è tenuto alla fine di maggio, anziché a gennaio. Un’altra differenza notevole è stata l’assenza della Russia e, soprattutto, dei suoi magnati, i cosiddetti oligarchi, mentre i rappresentanti cinesi erano numericamente ridotti a causa delle restrizioni sanitarie imposte per fronteggiare una recrudescenza del Covid-19. Quanto agli argomenti di discussione, a parte il cambiamento climatico, la guerra in Ucraina ha dominato la scena, con le tre crisi da essa acuite: energia, generi alimentari e inflazione. La quarta, come ha osservato il ministro dell’Economia tedesco Robert Habeck, è l’impossibilità di trovare soluzioni concentrandosi su una sola di queste tre crisi. Lo stesso presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha parlato in videoconferenza ai partecipanti, tra i quali il sindaco di Kiev Vitali Klitschko, chiedendo «massime sanzioni» contro Mosca, ma della guerra inquietano maggiormente i blocchi nelle esportazioni di cereali (soprattutto grano) e fertilizzanti, prodotti essenziali per la sicurezza alimentare, la cui circolazione è ostacolata, del resto, anche dalle misure protezionistiche che paesi come l’India hanno adottato per meglio provvedere al fabbisogno interno.

Industria degli armamenti: finché dura

Ogni volta che si parla di una guerra da una prospettiva economica, non solo per indagarne le cause, ma anche per intravederne gli effetti, non possono mancare stime e considerazioni sull’aumento dei profitti dell’industria bellica. In effetti, dall’inizio del conflitto ucraino, a registrare i maggiori guadagni sono state anzitutto le compagnie produttrici di armi ed equipaggiamenti militari, come le statunitensi Lockheed Martin, nota per i caccia multiruolo F-35 e per il sistema di difesa missilistica Patriot, e Nortrop Gunman, specializzata in droni di attacco e di sorveglianza. Entrambe, peraltro avevano già beneficiato dell’aumento nella domanda di equipaggiamenti bellici in Europa, Asia orientale e Oceania, prima della guerra in Ucraina, tra il 2017 e il 2021. In secondo luogo, la Israel Aerospace Industries, che tra gennaio e marzo ha incassato cifre record, puntando soprattutto sul mercato europeo, soprattutto tedesco (sarebbe in vista un contratto da circa 2 miliardi di euro per l’acquisto, da parte di Berlino, del sistema di intercettazione dei missili balistici Arrow 3) e finlandese (per il sistema di difesa missilistica Barak 8), mentre ora considera il potenziale offerto dai paesi confinanti con la Russia. Un altro attore di spicco di questa corsa al riarmo è la Gran Bretagna, dove il cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak ha recentemente annunciato l’imminente stanziamento di 1,3 miliardi di sterline per l’acquisto di armamenti, che «contribuiranno a dare slancio all’industria di punta della Difesa, creando nel paese posti di lavoro di qualità». Sul continente, intanto, tra i protagonisti della produzione bellica ci sono la Germania, con la Rheinmetall AG (+ 39% in borsa nell’ultimo periodo), l’Italia, con Leonardo Finmeccanica, e la Svizzera, che, oltre a possedere la Ruag, ospita gli stabilimenti per la componentistica di diverse industrie estere, come la Rheinmetall, e la svedese Saab. Quest’ultima, peraltro, che nel 2021 era la 36esima industria della Difesa mondiale, ha beneficiato della richiesta di adesione di Stoccolma all’Organizzazione del trattato dell’Atlantico Nord (Nato). Infine, per Francia e Turchia, grandi profitti, ma nessuna novità sostanziale apportata dal conflitto ucraino.

Pericolo disintegrazione

Ma non sono solo le armi convenzionali a essere considerate per il loro potenziale bellico in relazione alla guerra in Ucraina. La sicurezza informatica, ad esempio, soprattutto in società come quelle euroatlantiche, in piena rivoluzione digitale, ha conquistato un peso inaudito rispetto al passato, essendo la cyber-guerra parte integrante del conflitto, assieme alle tradizionali dimensioni di terra, aria e mare. Inoltre, la portata distruttiva di questa guerra che si estende oltre le parti belligeranti e i rispettivi paesi satelliti, riguarda il suo impatto sui mercati internazionali, quindi sul mercato globale. Anche perché le sue ripercussioni si sommano ai duri colpi già inferti all’economia da due anni di emergenza sanitaria, tanto a livello di commercio mondiale, quanto nelle singole società. La crisi alimentare che incombe su regioni come Medio Oriente e Africa, fortemente dipendenti dalle importazioni di grano da Russia e Ucraina, e gli appelli a non usarla come arma di guerra (il più esplicito in tal senso è stato forse il papa) indicano un salto di qualità di questo conflitto rispetto ai precedenti, prima e dopo la guerra fredda: oltre alla dimensione cibernetica, si aggiunge infatti quella economica. In altri termini, l’economia non è solo strumento di guerra, com’è già avvenuto in passato ogni volta che si sono imposte sanzioni contro un paese, ma è uno dei fronti sui quali la guerra si dispiega. Infatti, se a determinare la crescita economica mondiale sono state finora le forze che spingevano verso l’integrazione, quindi verso l’interdipendenza dei sistemi economici nazionali, la guerra in Ucraina potrebbe innescare la disgregazione del mercato mondiale in tanti mercati regionali, ciascuno dei quali, verosimilmente, cercherà di accaparrarsi la fetta più grande delle filiere produttive e delle catene di distribuzione delle merci. Senza considerare le potenziali rivalità per il controllo delle rotte commerciali, che aumenterebbero i rischi di un conflitto maggiore.

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