Il movimento contro la violenza sulle donne compie sette anni. In piazza migliaia di persone
1.990 femminicidi, 2.361 bambini sono rimasti senza madre, di cui 1.518 minorenni. Il 51 per cento delle vittime sono donne di età compresa tra i 19 e i 40 anni. Il 64 per cento dei crimini è avvenuto nelle case delle vittime. Da inizio 2022 sono morte 251 donne, per la prima volta in calo rispetto all’anno precedente. In piazza i famigliari delle vittime e le donne indigene
Dal 3 giugno 2015, quando è nata Ni una menos, il movimento contro la violenza sulle donne che dall’Argentina si è diffuso in tutto il mondo, sono stati commessi quasi 2 mila femminicidi nel Paese sudamericano. Dal 2015, quando si è iniziato a contare, al 27 maggio 2022, ci sono stati 1.990 femminicidi, 51 trans e travestiti uccisi e 191 uomini uccisi per le loro scelte sessuali. 2.361 bambini sono rimasti senza madre, di cui 1.518 minorenni. Solo dall’inizio del 2022 sono morte 251 donne, per la prima volta in calo rispetto all’anno precedente. Sono i dati di un report dall’associazione civile La Casa del Encuentro. Secondo le Donne della Patria Latinoamericana (MuMaLa), che ha sviluppato un ulteriore report, le province con il maggior numero di casi sono Buenos Aires, Santa Fe, Córdoba e Salta. Il 51 per cento delle vittime sono donne di età compresa tra i 19 e i 40 anni. Il 64 per cento dei crimini è avvenuto nelle case delle vittime. Le denunce presentate precedentemente dalle vittime non hanno mai superato il 25 per cento. “Il nostro slogan è che il maschilismo ci uccide e la povertà ci colpisce. Senza articolazione delle politiche statali è molto difficile uscire dalla situazione di violenza”, ha spiegato Victoria Aguirre, portavoce di MuMaLa, al giornale Pagina 12. Senza adeguate strutture economiche, le donne non riescono ad allontanarsi dalle persone violente.
Ni una menos torna in piazza a 7 anni dalla nascita
Il movimento Ni una menos è nato il 3 giugno del 2015 ed è tornato in piazza per rivendicare maggiore autonomia economica, con lo slogan “Ci vogliamo vive, libere e senza debito! Lo Stato è responsabile”. “Abbiamo bisogno delle risorse da utilizzare per promuovere l’autonomia economica di donne, lesbiche, travestiti e trans e non per pagare il debito”, ha spiegato Lucía Cavallero, del collettivo Ni Una Menos a Pagina 12. Il documento letto in piazza ha richiesto anche una riforma giudiziaria in chiave femminista, affinché le vittime della violenza di genere smettano di essere vittimizzate di nuovo in tribunale, dove dovrebbe essere esteso il patrocinio gratuito. Il diritto all’aborto, ratificato solamente a gennaio 2022 dopo anni di lotta in piazza con il Pañuelo verde, simbolo della libertà di abortire, dovrebbe avere attuazione effettiva in tutto il Paese. È stato richiesto, infine, l’aumento del budget per il Ministero delle Donne, del Genere e della Diversità. “Sono ormai sette anni che scendere in piazza è stato l’asse della nostra strategia politica per rendere pubblica un’affermazione che spesso rimane nella sfera privata. Ci auguriamo che si ripeta l’imponenza che si è vista l’8 marzo”, aveva detto Cavallero alla vigilia del corteo. E una moltitudine ha attraversato di nuovo Buenos Aires e le piazze delle altre città.
In piazza i famigliari delle vittime
L’organizzazione Atravesados por el Femicide, che riunisce i parenti delle vittime di questo crimine, durante il corteo ha costruito un memoriale con le foto delle donne assassinate. “Mancano politiche per accompagnare i sopravvissuti – ha spiegato Marcela Morera, una delle fondatrici del gruppo – La magistratura è lenta e costringe le famiglie ad aspettare anni per ottenere giustizia”. Il femminicidio lascia molti orfani, che spesso non ricevono un risarcimento economico nonostante una legge apposita e non gli viene fornito alcun supporto psicologico.
Le donne indigene stuprate dai creoli
Il Movimiento de Mujeres Indígenas por el Buen Vivir ha partecipato alla mobilitazione per chiedere “l’abolizione del chineo subito”, come recitava il loro slogan. Il “chineo” è la violenza sessuale che dai tempi della colonizzazione subiscono le donne indigene, chiamate “cinesi” dagli spagnoli per via dei loro occhi obliqui. La settimana prima del corteo si è svolto il Terzo Parlamento delle donne indigene e delle diversità per il Buen Vivir. Più di 250 donne e persone con diversità di genere provenienti da 21 nazioni indigene si sono riunite e hanno deciso di chiedere allo Stato argentino di adottare misure urgenti per porre fine agli abusi sessuali dei creoli a danno delle ragazze indigene e di dichiarare il “chineo” un crimine d’odio, senza possibilità di prescrizione. Nel documento si chiede anche che i gendarmi e gli agenti di polizia che commettono questi crimini siano licenziati dalle forze cui appartengono, e che quando questi crimini sono commessi da dipendenti delle imprese estrattive che deturpano i territori indigeni, di togliere la possibilità di ingresso nel territorio a quelle aziende. “Abbiamo aspettato 200 anni. Questo è un genocidio. Se necessario useremo i nostri corpi per la lotta, stanno uccidendo le nostre figlie” ha detto la weychafe (guerriera, in mapuche) Moira Millán , a nome del Movimiento de Mujeres Indígenas por el Buen Vivir.
4 condanne nel processo di Paula Martínez, suicidatasi dopo uno stupro di gruppo
Mentre qualche giorno fa è stata fissata la data del processo per il femminicidio di Lucía Pérez, il giorno prima della mobilitazione di Ni una menos sono state inflitte pesanti condanne nel processo di Paula Martínez, vittima di stupro di gruppo che ha combattuto per portare in giudizio gli stupratori e che si è suicidata dopo cinque anni, il 21 dicembre 2021, dopo aver provato ad ottenere giustizia. Il tribunale di Quilmes ora ha condannato a 20 e 19 anni i quattro stupratori. Paula, che subì la violenza quando aveva 18 anni dopo essere stata drogata, si era rivolta alla magistratura, ma non era stata ascoltata. Sua madre, Sandra Zapata, alla prima udienza del processo aveva affermato che il suo suicidio era “la cronaca di una morte annunciata, perché Paula è stata abbandonata dalla giustizia, dallo Stato, da tutti. La sua vita è stata una dura prova dopo lo stupro di gruppo, aveva perso il lavoro a causa degli attacchi di panico. Non voleva uscire di casa perché aveva il terrore di incontrare coloro che l’avevano violentata. Mia figlia era un relitto umano dopo quello che le hanno fatto. L’hanno uccisa quel giorno, era morta in vita”.