Malgrado la decisione del paesi produttori di petrolio di aumentare la produzione, i prezzi continuano a salire
Pesano i timori che questa misura non sia sufficiente, alla luce di un nuovo aumento della domanda da parte della Cina
Rialzo incerto
Anche se il 2 giugno l’Opep+, l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, più una decina di alleati tra cui la Russia, ha annunciato un aumento della produzione dai 432.000 barili al giorno precedentemente concordati, a 648.000, ciò non è bastato a placare le inquietudini dei mercati. Al punto che, dopo un esiguo ribasso nell’immediato, il giorno successivo, il Brent è aumentato dell’1,8%, giungendo a 119,72 dollari al barile, mentre il West Texas Intermediate si è attestato a 118,87 dollari al barile, con un rialzo dell’1,7%. Certo, si tratta di un miglioramento rispetto alle ore precedenti l’accordo dei rappresentanti dell’Opep+, quando per entrambi il rialzo era di circa il 2,5%. Nondimeno, le previsioni di un aumento di domanda da parte della Cina, che sta gradualmente abolendo le restrizioni sanitarie imposte per fronteggiare l’ultima ondata di casi di Covid-19, hanno impedito una diminuzione dei prezzi dell’oro nero, che molti analisti si attendevano dopo la decisione dell’Opep+. Peraltro, non è bastato neppure lo sblocco delle riserve strategiche di petrolio da parte degli Stati uniti, dove la quasi totalità delle filiere produttive è vessata soprattutto dai rincari del diesel, carburante essenziale per l’economia. Per questo, a fine maggio, Washington, per farne scendere il prezzo, ha preso in considerazione l’ipotesi di mettere mano alla Northeast Home Heating Oil Reserve, la riserva di un milione di barili di diesel destinata agli Stati uniti nord-orientali.
Washington guarda a Riyadh
Secondo quanto riportato, dal New York Times dal Washington Post e dall’emittente Cnn, il presidente statunitense Joe Biden ha in programma un viaggio diplomatico in Arabia saudita, dove incontrerà il principe ereditario Mohammed bin Salman. Eppure, la portavoce della Casa bianca Karine Jean-Pierre ha prontamente risposto di non avere viaggi da annunciare, limitandosi a dichiarare che «il presidente cercherà opportunità di impegno reciproco con capi di Stato del Medio Oriente». In effetti, ufficialmente, gli unici viaggi previsti per Biden sono quelli in Spagna, per il vertice dell’Organizzazione del trattato dell’Atlantico Nord (Nato), in Germania, per il G7, e in Israele, dove, peraltro, gli verrà verosimilmente chiesto conto della «lentezza» della diplomazia Usa nei confronti dell’Iran, rivale geostrategico di Tel Aviv, come di Riyadh. Il 3 giugno, tuttavia, è stato lo stesso Biden a riconoscere pubblicamente la possibilità di un imminente viaggio in Arabia saudita, anche se, in campagna elettorale, aveva auspicato che i suoi regnanti fossero trattati «come i paria che sono». Inoltre, appena insediato, Biden aveva reso pubblico un rapporto dell’intelligence, secondo cui era stato Mohammed bin Salman ad autorizzare l’uccisione del giornalista saudita, residente negli Usa, Jamal Khashoggi. Inoltre, il 1 giugno, la Casa bianca ha dichiarato che Biden ancora lo ritiene un «paria». «Non cambierò la mia opinione sui diritti umani, ma come presidente degli Stati uniti il mio dovere è portare pace, se posso, e questo è ciò che tenterò di fare», ha chiarito, mentre il suo tour diplomatico a Riyadh dovrebbe includere la partecipazione al vertice del Consiglio di cooperazione del Golfo, anche per discutere sulla guerra in Yemen, su cui bin Salman ha mostrato ultimamente qualche segno di apertura a un piano per la cessazione delle ostilità.
Niente sospensione per Mosca
Al vertice dell’Opep+, invece, contrariamente all’ipotesi avanzata il 31 maggio dal Wall Street Journal, i rappresentanti dei paesi membri non hanno sospeso la Russia dai vincoli sulla produzione di petrolio (misura già adottata per Iran e Venezuela). Secondo il quotidiano statunitense, questa decisione sarebbe dipesa da una riduzione delle capacità produttive di Mosca in conseguenza dell’ultimo pacchetto di sanzioni europee. Al contrario, l’Opep+, in seno al quale Riyadh gioca un ruolo di primo piano, ha suddiviso l’aumento della produzione di petrolio tra tutti i paesi membri, anche se solo Arabia saudita ed Emirati arabi uniti (Eau) hanno un potenziale produttivo inutilizzato consistente. Infatti, quote più alte di oro nero da estrarre sono state assegnate anche a paesi che, finora, non sono stati in grado di aumentare la loro produzione, come l’Angola, la Nigeria e, dopo le ultime sanzioni di Bruxelles, la Russia. A quest’ultima, potrebbero venire incontro India e Cina, che trarrebbero profitto dal basso costo attuale del greggio russo. D’altronde, come il denaro, così l’oro nero non ha odore, come dimostra la disponibilità di Washington, espressa il 17 maggio, di abolire alcune delle sanzioni imposte al Venezuela, con l’obiettivo ufficiale di favorire il dialogo tra il presidente Nicolas Maduro e l’opposizione, sostenuta dagli Usa. In realtà, la compagnia petrolifera statunitense Chevron fiuta già le opportunità per riprendere, e se possibile espandere, i suoi affari, interrotti nel 2020 su ordine della Casa bianca