Montenegro, Macedonia del Nord e Bulgaria chiudono lo spazio aereo al ministro degli Esteri russo, impedendone la visita in Serbia
Intanto, l’Unione europea cerca di contrastare l’espansione economica cinese nei Balcani
Russia-Serbia: visita negata
La cancellazione del tour diplomatico di due giorni a Belgrado del ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, il cui arrivo era previsto per lunedì, rappresenta per molti analisti un sintomo dell’isolamento, nei Balcani e in Europa, tanto della Russia, quanto della Serbia. Lavrov avrebbe dovuto incontrare i principali rappresentanti delle autorità serbe, in particolare il suo omologo Nikola Selaković, il presidente Aleksandar Vučić e il patriarca ortodosso Porfirije. Tuttavia, Montenegro, Macedonia del Nord e Bulgaria, Stati balcanici appartenenti all’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico Nord (Nato), hanno chiuso il loro spazio aereo, impedendogli di giungere a destinazione. «È successo qualcosa di impensabile», ha commentato Lavrov in conferenza stampa, il 6 giugno, «uno Stato sovrano è stato privato del diritto di portare avanti la propria politica estera. Le attività internazionali della Serbia con la Russia sono state bloccate». In altri termini, il ministro degli Esteri russo ha rimproverato alla Nato di aver impedito il suo viaggio in Serbia, con l’intento di isolare Mosca. «Dal punto di vista occidentale», ha spiegato, «la Serbia non deve avere alcuna scelta, né la libertà di scegliere i propri partner», tanto che l’Occidente è disposto a ricorrere a ogni mezzo per esercitare pressioni. Secondo la politologa serba Jasmin Mujanović, invece, la mancata visita di Lavrov è indice dell’isolamento di Belgrado nei Balcani e in Europa, oltre a rappresentare «un enorme fiasco e uno scandalo diplomatico» per la Serbia.
Oltre il gas
Il 6 giugno, in un’intervista all’emittente di Stato serba Rts, Vučić ha dichiarato di non aver visto «una tale isteria nei confronti di un piccolo paese da molto tempo», commentando che «a questo piccolo paese viene impedito di esistere» e che «l’isteria ha mostrato quello che vogliono. Non possono far nulla alla Russia e si arriva al punto che se la prendono con un piccolo paese». Belgrado, che da anni conduce negoziati per l’adesione all’Unione europea (Ue), è l’unico paese del vecchio continente, assieme alla Bielorussia, a rifiutare di sanzionare la Russia, pur condannandone le azioni militari. Infatti, oltre ai legami storico-culturali e religiosi, la Serbia non solo ricorda ancora il sostegno di Mosca e Pechino nella disputa sul Kosovo, ma ha con la Russia e, in misura minore, con la Cina importanti relazioni di cooperazione economica e strategico-militare. Anche per questo, dall’inizio del conflitto ucraino, circa 1000 aziende sono state aperte in Serbia da imprenditori russi, in fuga dal sesto pacchetto di sanzioni europee. Il 31 maggio, peraltro, data di scadenza del vecchio contratto per l’acquisto di gas da Mosca, Vučić ha concordato con il suo omologo russo Vladimir Putin le condizioni per siglarne uno nuovo, i cui dettagli saranno chiariti con il direttore della Gazprom Alexej Borisović Miller. Passo importante, anche se solo «di principio», dato che, dopo il sesto pacchetto di sanzioni votato da Bruxelles, dal 30 maggio, la compagnia petrolifera serba Nis, di cui la Gazprom Neft possiede il 56,15% del capitale azionario, non potrà più ricevere l’oro nero da Mosca attraverso l’oleodotto adriatico Janaf, gestito dall’omonima compagnia croata. Inoltre, secondo Vučić, la Serbia perderà 600 milioni di dollari a causa delle sanzioni.
Balcani: ombre cinesi, contromossa europea
Secondo Lavrov, Ue e Nato vogliono trasformare i Balcani in un «loro progetto chiamato ‘Balcani chiusi’. Un riferimento al progetto Open Balkans, caldeggiato dal Cremlino, cui attualmente aderiscono Albania, Macedonia del Nord e Serbia, dopo la defezione del Kosovo e della Bosnia Erzegovina, timorosi che la loro partecipazione avrebbe complicato il loro ingresso nell’Ue. I detrattori del progetto, soprattutto in Europa e negli Stati uniti, lo considerano la traduzione geoeconomica di un piano strategico russo, parallelo e alternativo al processo di Berlino. Frattanto, l’Ue cerca di contrastare l’intraprendenza economica di Pechino nei Balcani. A suscitare inquietudine, è soprattutto la segretezza del contratto da 20 milioni di euro firmato da Cina e Bosnia Erzegovina, per l’acquisto di tram. La stipula risale a giugno 2021, quando le autorità di Sarajevo hanno affidato la commessa a due compagnie cinesi. La Serbia, invece, ad aprile, ha acquistato da Pechino il sistema di difesa missilistica terra-aria FK-3, in base a un contratto firmato nel 2019. Il Consiglio di Stato greco, da parte sua, a marzo ha definito «illegale» la decisione di un precedente governo di commissionare l’ampliamento del porto del Pireo all’azienda cinese Cosco Group Limited. Motivo della sentenza, la mancanza di uno studio sull’impatto ambientale del progetto, ma in molti vi intravedono l’assecondamento della volontà di Bruxelles di contrastare l’espansionismo economico dell’Impero del Centro nei Balcani. Infatti, oltre alla delicata situazione del Montenegro dopo l’indebitamento con la Cina, quest’ultima porta avanti nella regione importanti progetti infrastrutturali, come un ponte in Croazia tra la costa dalmata alla penisola di Pelješac, un treno ad alta velocità in Serbia e un’autostrada in Montenegro. Dunque, l’Europa, dopo aver lasciato i Balcani in preda ai conflitti di fazione negli anni ‘90 del secolo scorso, teme di perderli di nuovo a causa di potenze emergenti, come la Cina.