Referendum giustizia giusta: ecco perché andare a votare (e votare 5 sì) è meglio che andare al mare

La tornata referendaria è stata accorpata al voto per le amministrative che vedrà coinvolti 978 Comuni

Domenica 12 giugno gli italiani saranno chiamati a votare, dalle ore 7 alle ore 23, per i referendum abrogativi per una giustizia giusta

Il voto referendario del 12 giugno per una giustizia giusta è alle porte. Per quel giorno il meteo mette pioggia e temperature in lieve diminuzione. È anche vero però che coi tempi che corrono c’è poco da fidarsi delle previsioni meteo. Ancora meno fiducia tuttavia andrebbe data a chi, come Luciana Littizzetto, ironizzando su una presunta incapacità degli italiani di comprendere questioni tecniche e giuridiche, invita tutti ad andare al mare e a disimpegnarsi verso un tema che invece riveste un’importanza cruciale per il buon funzionamento delle istituzioni democratiche. Forse però la Littizzetto non sa che per essere ritenuto valido, ogni referendum in Italia deve raggiungere il quorum, ossia il voto della maggioranza più uno degli aventi diritto. O forse lo sa, ma per mero calcolo ideologico sceglie deliberatamente di boicottarne l’esito, arrivando a ledere i diritti di chi invece si è sforzato di capire e di partecipare. Non sapremo mai le vere intenzioni di chi invita a fare altro in uno di quei rari momenti in cui è dato di manifestare la propria volontà politica, nel dubbio però è meglio diffidare e fare un piccolo sforzo di comprensione.

Abrogazione della legge Severino

La legge Severino stabilisce l’incandidabilità e la decadenza, dalle proprie cariche, di deputati, senatori o parlamentari europei che siano condannati in via definitiva per reati particolarmente gravi, come mafia o terrorismo. E fin qui, tutto bene. Del resto la stessa costituzione prescrive che le funzioni pubbliche debbano essere svolte con “disciplina ed onore”: Chiunque scelga di svolgere un ruolo politico quindi, dovrebbe evitare anche reati minori o condotte disonorevoli come le feste a base di droghe e prostitute (almeno finché saranno illegali) o l’evasione fiscale. Il problema della legge Severino però, è che prevede, ma solo per gli amministratori locali, la sospensione temporanea dal mandato anche in caso di condanna non definitiva. Quest’aspetto, oltre che palesemente incostituzionale perché vìola il principio della presunzione di innocenza è doppiamente problematico in un paese caratterizzato da una estrema lentezza del sistema giudiziario. In Italia infatti i tempi medi per arrivare ad un giudizio definitivo sono circa il doppio della media dei paesi Ocse. A questo si aggiunga che, secondo i dati forniti dal Presidente della Cassazione Pietro Curzio, viene richiesta l’archiviazione dopo la fine delle indagini, per quasi il 64% dei procedimenti che escono dalle procure. Di quelli che arrivano a dibattimento invece, oltre la metà finisce con un assoluzione entro il terzo grado. In un contesto del genere, costringere un amministratore locale a dare le dimissioni sulla base di una sentenza non definitiva, che ha il 50% di possibilità di essere annullata in terzo grado, significa spezzare il rapporto di fiducia tra l’amministratore e il territorio che lo ha eletto. Significa distruggere una vita e un progetto politico.

Votare sì per abrogare la Severino metterebbe fine a questo strapotere delle procure senza per questo impedire ad un giudice di condannare il reo accertato ad un periodo di interdizione dai pubblici uffici.

Limitazione delle misure cautelari

Attualmente in base all’articolo 274 del codice di procedura penale un giudice può disporre la privazione della libertà per un cittadino accusato ma non ancora condannato in via definitiva solo in alcuni casi specifici come: gravi indizi di colpevolezza, pericolo di fuga dell’indagato, rischio di reiterazione del reato o inquinamento delle prove. Anche questa prassi, pur ragionevole in caso di reati violenti o di soggetti appartenenti al mondo della criminalità organizzata, rischia di eludere il necessario principio della presunzione di innocenza che segna il discrimine tra lo stato di polizia ed il sistema democratico. L’aleatorietà di alcune motivazioni, così come l’enorme e crescente mole di risarcimenti che lo Stato ha versato negli ultimi anni per i casi riconosciuti di ingiusta e prolungata detenzione (24 milioni di euro solo nel 2021), sono un segnale dell’uso scorretto di questa misura.

Votare sì significa porre dei limiti più stringenti alla sua applicazione, esclusivamente per i reati meno gravi contemplati alla lettera c del comma 1. Non riguarderebbe in alcun modo i casi di reati violenti e socialmente pericolosi.

Separazione delle carriere dei magistrati

L’ordinamento giuridico italiano prevede una doppia funzione per il magistrato: il pubblico ministero che istruisce il processo sulla base dei dati raccolti in fase di indagine e il giudice giudicante che, in virtù della sua equidistanza dall’accusa e dall’accusato è garante della terzietà del potere giudiziario. Secondo i promotori del referendum questa terzietà, e con essa la garanzia formale di un giusto processo, è compromessa dal fatto che un giudice possa rivestire, nel corso della sua carriera entrambi i ruoli e, di fatto il giudice giudicante è un collega del pubblico ministero. Ne discende che la formazione dell’opinione del giudice nel corso del dibattimento possa essere minata anche da logiche corporative, con grave danno per l’accusato, ma anche per l’immagine di imparzialità che l‘intera magistratura deve mantenere agli occhi della popolazione. La stessa riforma Cartabia riconosce il problema, tanto che ha limitato il passaggio da una funzione all’altra ad una sola volta nel corso della carriera.

Votare sì significa eliminare definitivamente la possibilità di questo passaggio e stabilire una volta per tutte che il mestiere di chi svolge e coordina le indagini è diverso da quello di chi deve decidere sul risultato delle stesse.

Riforma dei consigli giudiziari

I Consigli Giudiziari sono organi ausiliari del Consiglio Superiore della Magistratura che hanno il compito di valutare, ogni quattro anni, l’operato dei giudici. Sono composti da “membri togati”, cioè gli stessi giudici, e “membri laici” che sono accademici del diritto e avvocati. Attualmente solo i membri togati partecipano alla valutazione dei giudici. Ma questo, oltre ad essere uno strano caso di coincidenza tra controllore e controllato espone l’operato del giudice all’influenza delle correnti.  Questo singolare sistema di autovalutazione produce giudizi positivi per oltre il 95% dei casi. Un dato in netta contraddizione col fatto che oltre la metà degli imputati risultano innocenti dopo 10 anni di processo.

Votare sì permetterebbe ad altre figure competenti in materia di diritto come professori accademici e avvocati di dare il loro contributo al corretto funzionamento della magistratura e ridurre anche il peso delle correnti all’interno dei Consigli Giudiziari.

Elezione dei giudici al Consiglio Superiore della Magistratura

Il Consiglio Superiore della Magistratura è l’organo di autogoverno della magistratura. È presieduto dal Presidente della Repubblica e composto da altri 26 magistrati. Di questi 16 membri sono eletti attraverso elezioni tra gli stessi magistrati e altri 8 sono eletti dal Parlamento. Un magistrato che voglia candidarsi a far parte del CSM deve raccogliere dalle 25 alle 50 firme che ne attestino il consenso tra i colleghi. Il numero non è piccolo e per essere raggiunto nei fatti, un magistrato deve fare riferimento a qualche corrente che ne definisce l’area di appartenenza. Come ha dimostrato il caso Palamara le varie correnti hanno finito per favorire l’assegnazione di incarichi, trasferimenti e funzioni attraverso una logica spartitoria e corporativa. I promotori del referendum intendono abolire la regola che prevede le 25 firme.

Votare sì, permetterebbe a chiunque di candidarsi senza bisogno dell’appoggio di una corrente.  Permetterebbe ai magistrati stessi di votare sulla base di un programma e di qualità professionali piuttosto che sulla base di logiche di gruppo o di ambizioni di carriera.

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