Secondo gli esperti, il costo elevato del gas mette alla prova l’economia statunitense, oltre che europea
La ricerca di alternative rischia di sollevare nuovi conflitti, dall’Africa settentrionale al Medio Oriente
Tensioni economiche
L’aumento dei prezzi dei carburanti mette a dura prova le economie euroatlantiche, e, tanto in Europa, quanto negli Stati uniti, consumatori e imprese fanno i conti con spese sempre maggiori a fronte di profitti per lo più fermi o in calo. Negli Usa, ad esempio, i rincari di benzina, diesel e gas, che ha raggiunto i 5 dollari a gallone, ha aumentato i costi di produzione e di commercializzazione in quasi tutti i settori dell’economia, dall’industria ai servizi. Ne è risultata un’impennata dei prezzi per i consumatori e un calo dei nuovi investimenti, che lasciano intravedere all’orizzonte una diminuzione della domanda di beni e servizi. Soprattutto da parte di individui e famiglie, che, per affrontare l’aumento delle spese energetiche (tra carburanti e utenze domestiche), da un lato riducono quelle non necessarie legate ad altri settori (persino sui generi alimentari), mentre, dall’altro, risparmiano sempre meno e, talvolta, erodono i risparmi accumulati. Negli Usa, a maggio, anche a causa dell’aumento dei prezzi dei carburanti, l’inflazione ha toccato un nuovo record degli ultimi quarant’anni, attestandosi all’8,6%. Come avviene nel caso del petrolio, peraltro, anche per il gas, le nuove restrizioni imposte, in Cina, nel popoloso distretto pechinese di Chaoyang, non sono bastate a fermare l’aumento dei prezzi, al punto che negli Usa, che pure producono gas e petrolio, la benzina ha superato per la prima volta i 5 dollari a gallone. In sostanza, se le sanzioni euroatlantiche nei confronti della Russia hanno scosso il mercato mondiale degli idrocarburi, le economie dei paesi che le hanno imposte rischiano di subire gravi perdite. Ultimamente, il presidente ungherese Viktor Orbán, in un’intervista radio, ha ammonito Bruxelles sulle conseguenze distruttive sull’economia europea di un embargo del gas a Mosca, mentre Bloomberg osserva che lo «shock energetico» ha sovvertito l’economia globale.
L’alternativa del Qatar
Nel tentativo di attutire l’impatto, soprattutto i paesi con un maggior consumo energetico tentano di correre ai ripari. Negli Usa, ad esempio, diversi analisti suggeriscono di puntare su altri settori dell’economia, come quello dei semiconduttori, soprattutto in vista della competizione globale con la Cina. In Europa, intanto, da un lato il piano RePowerEU prevede 300 miliardi di euro di investimenti destinati alle fonti rinnovabili, mentre, dall’altro, si cercano fonti di approvvigionamento energetico alternative, tra le quali il Qatar: le compagnie francesi Total e Technip e l’italiana Eni si sono già rivolte a Doha, come hanno fatto, d’altronde, la compagnia statunitense Exxon e la giapponese Chiyoda. Tuttavia, negli Usa, questa opzione rischia di essere complicata dalle indagini avviate dall’Fbi sul generale della Marina in pensione John R. Allen, che dal 2017 dirige il think tank Brookings Institution, dopo aver condotto le forze statunitensi e dell’Organizzazione del trattato dell’Atlantico Nord (Nato) in Afghanistan. Le accuse vanno dalle false dichiarazioni all’occultamento di documenti «incriminanti» sulle sue sospette attività per influenzare la politica statunitense in favore del Qatar, a seguito della crisi diplomatica esplosa nel 2017 tra quest’ultimo e le altre monarchie del Golfo.
Le opzioni israeliana e algerina
Quanto al gas, altri due potenziali fornitori alternativi a Mosca sono Israele e Algeria, ma entrambe le vie pongono non pochi problemi geopolitici. Anzitutto, nel caso di Algeri, la sospensione, l’8 giugno, del trattato di amicizia con la Spagna rischia di minare gli equilibri nordafricani e mediterranei, poiché coinvolge le delicate relazioni algero-marocchine su uno dei punti di maggior attrito, ossia la questione del Sahara occidentale. Quanto a Israele, il recente riaccendersi della disputa sui confini marittimi e sulle relative zone economiche esclusive ha riaperto le ostilità tra Tel Aviv e il movimento libanese sciita Hezbollah, considerato uno dei satelliti regionali dell’Iran all’interno della cosiddetta «mezzaluna sciita», aggravando così anche le tensioni internazionali e rendendo più difficile la ripresa del negoziato internazionale sul programma nucleare civile di Tehran. Infatti, il 9 giugno, la guida di Hezbollah Hassan Nasrallah ha affermato di poter fermare l’estrazione di gas da parte di Israele, senza alcun timore per lo scoppio di un’altra guerra. Nel suo discorso, peraltro, Nasrallah ha minacciato conseguenze anche per la «compagnia greca», ossia la anglo-greca Energean, cui appartiene l’imbarcazione giunta di recente a Karish, in acque contese tra Beirut e Tel Aviv. La situazione, inoltre, rischia di essere ulteriormente complicata dagli appetiti energetici della Turchia, che già aveva puntato allo sfruttamento dei giacimenti di gas ciprioti. Ankara, infatti, è ora impegnata nel portare avanti la normalizzazione delle sue relazioni con Israele, con l’obiettivo finale di stabilire un partenariato sul gas. Nondimeno, uno degli snodi per portare il gas israeliano in Europa sarebbe l’Egitto, che è ben lungi dal cercare una distensione con la Turchia. In altri termini, la corsa all’emancipazione dalla dipendenza energetica dalla Russia rischia di spingere Europa e Usa a preparare il terreno per nuovi conflitti o per la riapertura di vecchie ostilità.