Tra l’emergenza sanitaria, gli aumenti dei prezzi delle materie prime e le ripercussioni della guerra in Ucraina, l’economia cinese subisce qualche battuta d’arresto
Anche per questo, la strategia di Washington per difendere il primato globale si basa anzitutto sull’accerchiamento economico
Battute d’arresto
Dalla Cina, analisti e osservatori si mostrano fiduciosi sulle stime relative alla crescita dell’economia nel secondo trimestre del 2022 e, ancor più, su una pronta ripresa nella seconda metà dell’anno. Infatti, poiché a fine giugno si attende una ripresa graduale della produzione nelle aree colpite di recente da una nuova ondata di casi di Covid 19, almeno su questo fronte il peggio sembra passato. Tuttavia, a parte le preoccupazioni suscitate dal nuovo focolaio del distretto pechinese di Chaoyang, gli economisti invitano il governo cinese ad adottare misure per stabilizzare e rilanciare la crescita, come maggiori incentivi sui progetti infrastrutturali, tagli alla spesa pubblica e un abbassamento dei tassi di interesse sui prestiti bancari per ammortizzare l’impatto dell’emergenza sanitaria. L’obiettivo finale è la stabilizzazione della crescita cinese e, di conseguenza, globale, visto che, da un lato, le previsioni del Fondo monetario internazionale (Fmi) di un calo della crescita economica mondiale e, dall’altro, la riduzione o l’aumento della domanda cinese di petrolio in ragione dei ritmi di produzione influiscono sull’andamento dei prezzi dell’oro nero. Intanto, a maggio, l’Impero del Centro ha registrato un incremento dei costi di produzione, anche se al ritmo più lento da marzo 2021, mentre, all’inizio di giugno, il Consiglio di Stato ha chiarito i dettagli del «Pacchetto di misure per stimolare la ripresa dell’economia». Contestualmente, l’Ufficio nazionale di statistica cinese ha precisato che l’indice dei prezzi alla produzione è aumentato a maggio del 6,4%, rispetto all’8% di aprile, mentre l’indice dei prezzi al consumo (principale indicatore dell’inflazione) ha subìto un rialzo del 2,1%, senza variazioni rispetto al mese precedente. In entrambi i casi, secondo gli economisti cinesi, i valori reali corrispondono alle previsioni, che, per il prossimo futuro parlano di una diminuzione dell’indice dei prezzi alla produzione e di un leggero aumento dell’indice dei prezzi al consumo.
Probabile crisi di fiducia all’orizzonte
A mantenere sostanzialmente stabili i prezzi di beni e servizi sul mercato interno cinese, secondo gli esperti, è stata soprattutto la riduzione della domanda, causata in gran parte dalle recenti restrizioni santarie. È per questo, dunque, che Pechino non è particolarmente preoccupata per l’inflazione (a differenza di Europa e Stati uniti) e punta su misure che stimolino la domanda. Nondimeno, gli analisti si attendono un taglio dei tassi di interesse da parte della Banca centrale cinese, anzitutto sui prestiti a medio termine, per i quali le stime parlano di diminuzioni fino a 10 punti base. Questo tipo di prestiti, infatti, in Cina ammonta complessivamente a poco meno di 30 miliardi di dollari (200 miliardi di yuan) e rappresenta uno strumento chiave per la Banca centrale per rilasciare liquidità a medio termine sul mercato interbancario: ragion per cui, un taglio dei tassi di interesse è di norma considerato un sintomo della volontà di Pechino di rafforzare l’economia. Attualmente il tasso di interesse sui prestiti a medio termine è del 2,85%, dopo l’abbassamento di metà gennaio, quando si attestava al 2,95%. Frattanto, gli alti livelli di inflazione negli Stati uniti hanno indotto la Federal Reserve ad aumentare i tassi di interesse, favorendo il rientro di capitali dai mercati emergenti, Cina compresa. Questo potrebbe dunque essere un test per la solidità dei tassi di cambio e per la stabilità finanziaria dell’economia cinese, ma, secondo Foreing Policy, quest’ultima starebbe subendo una «crisi di fiducia». Al punto che, per la prima volta dal 1976, gli analisti statunitensi prevedono una maggiore crescita per gli Usa che per l’Impero del Centro, che, al contrario, sarebbe entrato in una «lunga fase di rallentamento». Da Pechino, di contro, ritengono erronea una simile interpretazione, giacché la fuga di aziende straniere che producevano beni con scarso valore aggiunto è «inevitabile per un paese che risale la catena di valore mondiale».
Poliorcetica di mercato
Interpretazioni a parte, se per affrontare la Russia Washington sceglie una via più muscolare, per far fronte all’ascesa geopolitica della Cina sembra optare per una strategia di accerchiamento che parte dall’economia e ha come suo asse centrale l’Indo-Pacifico. Un fronte sul quale, al contempo, gli Usa ricorrono alla tradizionale tattica delle alleanze, soprattutto mettendo in campo un maggiore attivismo geostrategico in coordinazione con gli alleati del cosiddetto «quadrilatero democratico» (Australia, Giappone e India) e un rafforzamento della cooperazione militare con Australia e Gran Bretagna. Un impegno che, d’altronde, comporta un proporzionale allentamento dell’attenzione su altri teatri geopolitici rilevanti come il Medio Oriente, dove gli equilibri di forze sono in via di definizione. Nei confronti di Pechino, dunque, Washington sceglie di procedere a una sorta di assedio economico, sintetizzato nel recente Indo-Pacific Economic Framework (Ipef), che coinvolge le principali economie asiatiche escludendo la Cina. Ma l’assedio rischia di aumentare l’importanza geostrategica (e di conseguenza la possibilità che esplodano nuovi conflitti) di Taiwan, il cui governo ha recentemente definito l’omonimo stretto come una «via marittima internazionale», esprimendo il suo sostegno agli Usa, le cui navi da guerra (talvolta assieme a quelle britanniche e canadesi) negli ultimi mesi lo hanno attraversato con frequenza crescente. Una risposta diretta a Pechino, il cui portavoce del ministero degli Esteri, Wang Wenbing, il 13 giugno, ha riaffermato la propria sovranità sullo stretto, accusando chi lo considera come parte delle acque internazionali di manipolare la questione di Taiwan e le sue relazioni con la Cina.