Oltre il 60% compie la transizione da corpo femminile a corpo maschile e quasi nessuno si pente della propria scelta
Vivere una vita normale e avere dei figli si può anche con la conservazione dei gameti
ROMA – Non solo transgender in queste giornate di Pride, in cui l’orgoglio LGBTQIA+ si erge in tutta la sua forza, è bene fare un passo indietro e ricordare cosa implica la sigla LGBTQIA+: si tratta di una sigla che sta a indicare i membri di una comunità che non si riconoscono nell’etichetta “classica”, cioè con il loro sesso biologico e/o non sono eterosessuali.
La sigla sta per Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transgender (o Transessuali), Queer, Intersessuali e Asessuali, il + serve a indicare tutti coloro che fanno parte della comunità ma non sono stati inseriti nella sigla.
Recentemente è stata anche inserita nella famosa enciclopedia Treccani.
Designa tutte le persone che per orientamento sessuale, identità e/o espressione di genere, caratteristiche anatomiche non aderiscono agli standard del binarismo cisessuale e dell’eterosessualità.
Una delle “lettere” più stigmatizzate è la T, i transessuali sono spesso giudicati malamente e non appieno compresi, c’è ancora tanta confusione su cosa significa MtF o FtM e disforia di genere.
«In termini medici si chiama disforia di genere, in pratica è uno stato di incertezza sull’identità sessuale, relativa all’identificazione rispetto al genere, spesso doloroso e marginalizzante»spiega Piernicola Garofalo, endocrinologo dell’età evolutiva e componente in Sicilia del Tavolo regionale per la Medicina di genere durante la presentazione dei risultati preliminari dello “Studio sullo stato di salute della popolazione transgender adulta in Italia” dell’Istituto superiore di Sanità in collaborazione con centri clinici distribuiti sul territorio nazionale e associazioni/collettivi transgender.
«Si tratta di una condizione che sempre più va assumendo i connotati di una “non malattia” in senso tradizionale- prosegue l’endocrinologo- infatti non sappiamo perché viene, né abbiamo una terapia specifica per curarla. Abbiamo però certamente gli strumenti per riconoscerla e supportarla».
La disforia di genere è un “disagio soggettivo espresso fin dalla prima infanzia”, possibile da diagnosticare solo tramite valutazioni psicologiche.
«Sia il percorso diagnostico sia quello terapeutico sono rigidamente validati- spiega l’esperto- e richiedono almeno due o tre anni per un corretto completamento».
Chi può riguardare la disforia di genere?
«Ragazzi o ragazze di qualsiasi livello socio-economico, cresciuti bene in ambienti familiari “normali”, culturalmente validi, sensibili, ma decisi ad intraprendere un cammino di identificazione che hanno atteso da tempo».
Questo comporta difficoltà relazionali e «un nuovo ruolo da ridisegnarsi addosso e poi un lungo percorso di transizione/affermazione di genere, ormonale e chirurgica che segnerà per sempre lo strappo con il corpo di prima».
Pochi anni fa, la tendenza vedeva scegliere il percorso di transizione principalmente da persone nate biologicamente maschi, mentre adesso sembra essere vero il contrario.
«Oggi c’è una netta inversione di tendenza- dice Garofalo – circa due terzi dei giovani transgender sono di sesso biologico femminile alla nascita. La percentuale di adolescenti post puberi, in percorso trans, che cambia idea è molto bassa, intorno al 2-4%». una percentuale assolutamente insignificante quindi.
Diverse persone transgender preferiscono una riassegnazione fenotipica, cioè una transizione chirurgica, non completa.
«Alcuni scelgono di conservare i gameti (spermatozoi, ovociti) prima della transizione ormonale e/o chirurgica per una futura riproduzione in vitro. I transgender hanno usualmente una vita di coppia stabile, da eterosessuali» parla l’endocrinologo.
Cosa si sente di dire ai ragazzi o alle ragazze che vogliono intraprendere questo percorso e ai loro genitori?
«Ai giovani voglio dire di non ghettizzarsi, di non usare la loro condizione come disabilitante, ma di vivere pienamente il loro nuovo ruolo- aggiunge ancora l’endocrinologo- mentre ai genitori di non osteggiare a priori e non alzare muri, piuttosto di provare a capire e discutere con delicatezza»
«A coloro che hanno la responsabilità della salute dei giovani – conclude parlando ai pediatri – raccomando un aggiornamento continuo e la capacità di fare rete con i centri specifici ormai presenti in diverse realtà sanitarie».