Martedì 21 giugno, decine di migliaia di lavoratori sono scesi in piazza a Londra. È il primo giorno del più grande sciopero ferroviario della Gran Bretagna in 30 anni.
Per chi vive in UK non è una sorpresa. A un anno dalla definitiva uscita del Paese dalla UE, anche i maggiori sostenitori di Brexit fanno i conti con la realtà.
Non è un buon periodo per Johnson. Può avere racimolato abbastanza voti per non essere sfiduciato, ma il suo consenso è ai minimi storici. La deportazione dei richiedenti asilo in Ruanda della Patel (fermata dalla Corte Europea dei Diritti Umani) e l’intenzione di violare il Protocollo sull’Irlanda del Nord firmato con la UE ha creato scontenti. Ma è stato soprattutto il budget di Sunak, che oltre a non provvedere un tetto ai costi energetici ha sommato aggravamenti fiscali e tagli previdenziali, a rendere i britannici meno disposti a tollerare gli atteggiamenti burleschi di Johnson.
Ora il governo è costretto a tirare le somme dei 12 anni di politiche erosive e a fare i conti con il tracollo alle elezioni amministrative.
I tagli
Tra il 2010 e il 2022, i tagli dei conservatori hanno distrutto il tessuto della società, infierendo sui redditi e svilendo il settore pubblico. Brexit ha poi fatto il resto.
Inizialmente, David Cameron aveva venduto l’austerità come una misura necessaria dopo la crisi del 2008. I tagli erano stati accettati. D’altra parte, nel Regno Unito si viveva ancora bene. Gli anni del New Labour avevano segnato una crescita economica senza precedenti, con potenziamento dei servizi pubblici, riduzione della povertà e innalzamento del reddito medio.
L’educazione
Fin dalle prime battute, i conservatori hanno lavorato verso la rimozione delle riforme laburiste. Se il motto di Tony Blair era stato “Education, education, education” creando un’istruzione accessibile per abbattere le barriere sociali, le riforme scolastiche del conservatore Michael Gove hanno invece sterzato l’istruzione verso una direzione classista ed elitaria.
Da un lato, Gove ha triplicato le tasse universitarie (che oggi sono di circa 9500 sterline l’anno), dall’altro creato un curriculum inaccessibile a bambini provenienti da classi disagiate, che hanno una base di partenza spesso inferiore. I successivi tagli hanno poi reso difficile alle scuole supportare questi bambini. In pochi anni, il divario è aumentato al punto che una ricerca del 2020 poneva la Gran Bretagna al 23esimo posto in Europa per la disparità tra i bambini delle elementari, dietro paesi come la Polonia e la Romania.
Brexit
Successivamente, i governi di Theresa May e di Johnson hanno continuato le loro politiche di erosione anche nei periodi di ripresa economica. I tagli, le privatizzazioni, le svendite di servizi pubblici avvenivano dietro le quinte delle fantomatiche promesse dei benefici di Brexit che avrebbe restituito alla Gran Bretagna sovranità, libertà e crescita economica.
Nel 2019, dopo aver firmato il protocollo sull’Irlanda del Nord con la UE, Johnson aveva annunciato il suo vittorioso “Brexit is oven-ready”. Gli era fruttato una vittoria elettorale e una maggioranza di 80 seggi. Da allora i Tories hanno avuto mano libera.
Oggi la Gran Bretagna è un paese povero e diviso. Alcune zone dell’Inghilterra, del Galles, della Scozia e dell’Irlanda del Nord sono tra le più povere dell’Europa occidentale e dipendevano quasi esclusivamente dai fondi della UE.
Il Covid e la guerra in Ucraina hanno avuto un impatto economico ovunque, ma l’attuale isolamento economico della Gran Bretagna rende la ripresa difficile.
L’inflazione
Con un’inflazione intorno al 10%, il crollo del potere d’acquisto dei britannici ha fatto decuplicare le food bank, che ora sono spesso usate anche da famiglie con due stipendi. Quella che con Blair era stata la classe media ascendente ora vive sotto il livello della povertà.
Secondo il Financial Times, la crescita economica del Regno Unito nei prossimi 3 anni sarà (fatta eccezione per la Russia), la peggiore del G20, mentre l’IMF ha stimato che nel 2023 sarà la peggiore del G7.
Dopo Brexit, la Gran Bretagna ha dovuto ricostruire la stessa rete di accordi che aveva come membro dell’UE, ma naturalmente a condizioni peggiori. L’accordo commerciale con gli Stati Uniti (a cui aspirava) è naufragato. Biden ha messo in chiaro che non firmerà accordi commerciali con la Gran Bretagna fin tanto che Johnson perseguirà l’obiettivo di riprendere il controllo dell’Irlanda del Nord che ha perso dopo aver firmato il protocollo con la UE nel 2019 (gli USA – vale la pena ricordarlo – sono i garanti del Good Friday Agreement, il trattato di pace con l’Irlanda del Nord).
Ora Johnson è sotto pressione. Sfiduciato dal 40% del suo stesso partito, resta al potere destreggiandosi tra lo scontento interno e quello popolare.
Gli scioperi
I sindacati hanno affermato che gli scioperi ferroviari potrebbero segnare l’inizio di una “estate del malcontento” con insegnanti, medici e avvocati sul piede di guerra. Il riferimento è all'”inverno del malcontento” del 1978-79, quando la Gran Bretagna dovette affrontare scioperi continui che paralizzarono il Paese.
Piuttosto che mitigare lo scontento, il governo sta scegliendo lo scontro, minacciando di rimuovere le tutele previste dalla legge per gli scioperanti ed eliminare il divieto di utilizzare lavoratori interinali durante gli scioperi. Inoltre ha intenzione di rimuovere l’HRA (Human Rights Act) per indebolire l’autorità della Corte Europea dei Diritti Umani sulla Gran Bretagna (paradossalmente un corte creata da Churchill), una mossa definita come una deriva autoritaria del governo.
Non mancano neanche le polemiche contro il leader laburista, Keir Starmer, già criticato per la sua scarsa opposizione alle politiche conservatrici, l’epurazione della sinistra dal partito (cominciata con l’espulsione di Jeremy Corbyn), la sua mancata opposizione a Brexit (l’elettorato laburista è largamente europeista) e infine la sua attuale assenza di supporto ai sindacati.