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(Dis)ordini mondiali. Mercati incerti e timori di recessione

Dopo un ventennio trionfale per la globalizzazione all’insegna dell’egemonia statunitense, l’emergenza sanitaria e il conflitto ucraino l’hanno posta di fronte...

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Dopo un ventennio trionfale per la globalizzazione all’insegna dell’egemonia statunitense, l’emergenza sanitaria e il conflitto ucraino l’hanno posta di fronte a due ostacoli

Il primo è costituito da paesi come Cina, India e Messico, intenzionati a dare una lezione alla superpotenza; il secondo risiede nel maggior rischio che comportano le crisi globali rispetto alle catastrofi locali

Colli di bottiglia

Mentre la Turchia si propone come mediatrice per sbloccare le esportazioni di grano ucraino, buona parte degli economisti euroatlantici rivede a rialzo le stime sull’eventualità di una recessione globale a breve termine, provocando incertezza sui mercati e allarme tra i consumatori. Infatti, come riporta Bloomberg, secondo gli analisti di Citigroup, «la probabilità che l’economia mondiale sprofondi nella recessione è vicina al 50%», mentre «le banche centrali inaspriscono la loro politica monetaria e la domanda diminuisce». In sostanza, mentre vaste regioni come Medio Oriente e Africa settentrionale temono la fame a causa del mancato approvvigionamento di grano e dell’impennata dei prezzi dei generi alimentari e dei carburanti, anche le economie avanzate fanno i conti con l’interruzione delle forniture di materie prime strategiche, che, a sua volta, spinge verso l’alto i costi di produzione, traducendosi in rincari per i consumatori. Il conseguente aumento dell’inflazione (già in salita prima del conflitto ucraino, a causa dell’emergenza sanitaria del biennio precedente), che riduce il potere d’acquisto dei consumatori, induce la banche centrali ad adottare misure di contenimento, come il rialzo dei tassi di interesse. Ad esempio, la Banca centrale europea (Bce) ne prevede due, di cui il primo a luglio, dello 0,25%, e il secondo a settembre, le cui dimensioni saranno definite a seconda dello sviluppo della guerra in Ucraina e delle ondate di Covid-19 in Cina (queste ultime, infatti, determinano rallentamenti nella produzione e nella fornitura di materie prime, componenti e beni). Nondimeno, l’aumento dei tassi di interesse, che rende più costosi prestiti e finanziamenti, tende a ridurre la domanda dei consumatori. Un fenomeno che generalmente rallenta i rincari, ma, al contempo, anche la produzione, quindi la crescita economica. Le banche centrali, peraltro, nel tentativo di assicurare un certo margine di stabilità ai prezzi ai consumatori, rischiano di creare i presupposti per la deflazione, che, portando minori profitti alle imprese, riduce l’occupazione.

Valute emergenti

Secondo l’amministratore delegato di Deutsche Bank, Christian Sewing, l’eventualità di una recessione in Europa e negli Stati uniti nella seconda metà del 2023 dipende essenzialmente dalla guerra in Ucraina. Inoltre, come Citigroup, Sewing stima al 50% le probabilità di una recessione globale, sostenendo, tuttavia, la scelta delle banche centrali di aumentare i tassi di interesse per ridurre l’inflazione, che rappresenta «un pericolo per la democrazia». Di contro, una commissione di economisti statunitensi, le cui valutazioni sono state riportate dal Wall Street Journal, ha criticato una simile scelta della Federal Reserve, in quanto aumenterebbe le probabilità di una recessione negli Usa al 44% (a fronte del 28% ventilato ad aprile). In tale contesto, diversi analisti suggeriscono una riflessione sulle criptovalute che pure non sono immuni agli scossoni che interessano i mercati finanziari, come dimostra il crollo del valore dei bitcoin, negli ultimi mesi, del 75%, cui ha contribuito la perdita del 30% subita dal titolo tecnologico statunitense Nasdaq. Eppure, le criptovalute sono state, nel 2008, una risposta alla recessione globale innescata dalla crisi finanziaria, oltre ad aver introdotto un nuovo modo di effettuare transazioni, al di fuori della sfera di controllo delle banche commerciali (e, di conseguenza, centrali). Attualmente, di contro, anch’esse, lungi dall’agire come un porto sicuro nel mare in tempesta, appaiono travolte dai tremori che attraversano la finanza globale. Lo dimostra, peraltro, il recente crollo della stablecoin Terra, che ha causato rischi di insolvenza a Three Arrow Capital, il maggiore fondo speculativo per le criptovalute. La conseguenza è stata un drastico calo della domanda di bitcoin nel mondo.

Inquietudini geoeconomiche

Frattanto, prima l’emergenza sanitaria da Covid-19, con le relative restrizioni alla mobilità e contrazioni della produzione di beni e servizi, poi la guerra in Ucraina e le sanzioni euroatlantiche imposte alla Russia, che frantumano le filiere produttive di gran parte dei settori dell’industria (dopo le delocalizzazioni del periodo della globalizzazione trionfante), stanno mettendo a repentaglio l’approvvigionamento di materie prime e generi di prima necessità a livello globale e stanno dissestando i mercati internazionali degli idrocarburi, il cui declino, peraltro, era nell’aria a causa dell’annunciata transizione ecologica ed energetica. Ne consegue, a livello locale, un inasprimento della crisi economica, che sembra aver soppiantato i sogni di ripresa dopo il biennio della pandemia, suscitando anche nelle economie avanzate il timore di esplosioni, sotto varie forme, del malcontento sociale. Diverso è il caso delle economie emergenti, non solo quelle dei cosiddetti Brics, ovvero Brasile, Cina, India, Sudafrica e Russia, ma anche quelle di paesi come Giappone e Messico. Tutti esempi di modelli alternativi a quelli «occidentali», anche se elaborati a partire dalle medesime leggi di mercato, e, soprattutto, di voglia di riscatto dal passato coloniale (diretto o indiretto). Se il Giappone è più fedele alla politica internazionale statunitense, soprattutto Cina, India e Russia stanno tentando di ristrutturare la propria economia, facendo della crisi innescata dall’esplosione delle tensioni geopolitiche sul fronte europeo orientale uno stimolo per elaborare un mercato globale diverso da quello concepito da Washington e replicato dai suoi satelliti. A livello regionale, invece, diverse sono le medie potenze che cercano di tessere nuovi equilibri locali, come l’Egitto, Israele e gli Emirati arabi uniti (Eau). Infine, c’è il caso della Turchia, che, pur appartenendo all’Organizzazione del trattato dell’Atlantico Nord (Nato), persegue i propri interessi geostrategici. Non solo ricorrendo alla minaccia di non sollevare il veto alla richiesta di adesione alla Nato di Finlandia e Svezia, ma anche presentandosi come mediatrice nel conflitto ucraino e nella crisi del grano da esso innescata.

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