Imporre un salario minimo, ignorando differenze di produttività e costo della vita, rischia di aumentare disoccupazione e lavoro nero
Alcune settimane fa le principali istituzioni europee hanno annunciato di aver raggiunto un accordo per una direttiva su un “equo salario minimo” nei vari Stati dell’Unione. Non si tratterà di imporre una uguale retribuzione minima in tutti i Paesi, ma di lasciare a questi ultimi il compito di stabilire la cifra “giusta” con cui retribuire al minimo i lavoratori
La notizia ha riportato in auge anche in Italia il dibattito sul tema. Il Ministro del Lavoro, Orlando, ha dichiarato che c’è la possibilità di “cogliere opportunità senza forzature”. La proposta su cui si lavora da noi prevede un reddito minimo pari al 60% del salario mediano lordo o al 50% del salario medio lordo: tradotto in cifre, circa 9€ l’ora.
La realtà è più complessa (tanto per cambiare)
Già da una prima, distratta lettura di queste poche righe il lettore potrebbe chiedersi: perché l’Europa non ha voluto direttamente imporre un salario minimo uguale per tutti i Paesi? La risposta dovrebbe essere scontata: perché non tutti i Paesi sono uguali, soprattutto in termini di produttività e costo della vita.
Questi due aspetti possono variare parecchio anche all’interno di uno stesso Paese: l’Italia è un caso esemplare. In questo articolo del 2019 su Lavoce.info, gli autori spiegavano che
Nel 2014, la differenza nel valore aggiunto medio tra le imprese dell’Italia settentrionale e quelle dell’Italia meridionale era del 19%; la stessa differenza tra le imprese della Germania occidentale e orientale
L’articolo era incentrato sul tema della contrattazione collettiva, e spiegava come i due Paesi (Italia e Germania) avessero adottato due approcci opposti al medesimo problema: mentre la Germania ha optato per una contrattazione salariale flessibile e decentralizzata, l’Italia ha puntato sui contratti collettivi nazionali, “che consentono aggiustamenti salariali limitati a livello locale”. In estrema sintesi: chi fa impresa in Italia deve pagare stessi salari in zone del Paese che hanno una produttività inferiore di circa il 20% rispetto ad altre: la conseguenza è che, in molti casi, si rinuncia anche ad aprire.
Nel già citato articolo gli autori ipotizzavano cosa sarebbe potuto succedere se l’Italia scegliesse di passare al “modello tedesco”, lasciando che i salari si adattino a produttività e costo della vita locali:
(…) secondo le nostre stime i salari medi nelle province meridionali diminuirebbero del 5,9 per cento (o 53 centesimi l’ora), mentre l’occupazione al sud aumenterebbe di 12,85 punti percentuali. Complessivamente il monte salari nelle province meridionali aumenterebbe in media del 16,6 per cento, ovvero di 114 euro al mese.
A livello nazionale, stimiamo che l’occupazione aumenterebbe di 5,77 punti percentuali e i salari del 7,45 per cento. Ciò equivale a circa 600 euro all’anno in più per ogni adulto in età lavorativa. Il divario nord-sud nel reddito pro capite si ridurrebbe dal 28 per cento all’11 per cento.
La contrattazione collettiva, secondo molti, è parente strettissima del salario minimo. Anzi, secondo costoro il salario minimo in Italia di fatto esisterebbe già, proprio perché quasi tutti i lavoratori e le aziende sono coperte dalla contrattazione collettiva, la quale prevede dei minimi livelli retributivi.
La sensazione, ancora una volta, è di trovarsi di fronte ad un provvedimento-bandiera, buttato in pasto alla folla senza badare troppo alle conseguenze e, soprattutto, senza riflettere minimamente sulle cause del lavoro povero.
Costo del lavoro, produttività, tassazione, mancanza di “skills”: le vere (e complesse) ragioni del lavoro povero
Queste sono numerose e complesse. Dal lato aziendale si può citare il fatto che il cuneo fiscale e contributivo – la differenza tra il netto in busta paga di un lavoratore e quanto costui costa all’azienda – in Italia è decisamente più alto che nel resto d’Europa.
Quanto alla già citata produttività, quella italiana è da molti anni un punto dolentissimo, anche perché vi è una discreta confusione sul significato di questo termine: in termini semplici è “la capacità di un’azienda di produrre valore in base alle risorse impiegate”. Ma molti, quando sentono parlare di scarsa produttività, pensano che si stia accusando di pigrizia i lavoratori, e subito scatta come reazione il dato sulle ore lavorate, che in Italia è più alto che in Germania. In realtà la questione riguarda il lavorare “smarter, hot harder”; è legata alla tecnologia di cui dispone un’azienda, all’organizzazione dei suoi processi produttivi.
Ora, l’Italia è un Paese caratterizzato da poche imprese medio-grandi, e da una miriade di imprese piccole o piccolissime (spesso a conduzione familiare), impiegate in settori a basso valore aggiunto (turismo, ristorazione); questo genere di imprese, per “natura”, può offrire quasi solo posti di lavoro poco “skillati” e a bassa retribuzione.
L’introduzione di un salario minimo, se fatta ignorando tutti questi fattori, rischia dunque solo di aumentare la disoccupazione – perché molte imprese potrebbero non potersi permettere quel minimo – o di aumentare il lavoro nero.
C’è solo da augurarsi che il neo-centrista Luigi di Maio si ricordi di quella “complessità” da lui stesso evocata nel dare l’addio al M5S.
Ma probabilmente ciò non avverrà.