Intrappolata da debiti con più potenze, Colombo negozia un prestito con il Fondo monetario internazionale
L’obiettivo è alleviare la crisi, ma il rischio è di incappare in un circolo vizioso senza fine
A fondo perduto
Il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha reso noto che le trattative con il governo dello Sri Lanka si stanno rivelando costruttive, lasciando intendere che presto potrebbe accordare l’approvazione preliminare alla concessione di un prestito per attenuare l’impatto sociale della crisi economica. Dal 20 al 30 giugno, infatti, una delegazione del Fmi, guidata da Peter Breuer e da Masahiro Nozaki, ha discusso, a Colombo, con le autorita srilanchesi il piano di riforme economiche necessarie per fornire le garanzie richieste per l’apertura di un credito. Le tappe successive dei negoziati, invece, si svolgeranno presumibilmente da remoto, con l’obiettivo di raggiungere un accordo tecnico sull’accesso dello Sri Lanka al programma di Extended Fund Facility (Eff), un dispositivo di finanziamento esteso, concepito negli anni ‘70 per paesi in serie difficoltà con la bilancia dei pagamenti, a causa di impedimenti strutturali o di scarsa crescita economica. Un programma che implica per i singoli paesi impegni a medio e lungo termine (a differenza di altri programmi di finanziamento del Fmi), rendendo spesso necessarie riforme economiche, fiscali e finanziarie, che non di rado acuiscono le diseguaglianze sociali aumentando le tensioni interne. Nella fattispecie, il Fmi ha già chiarito che, in attesa del via libera del Consiglio esecutivo, Colombo dovrà portare il suo debito estero «a livelli sostenibili», ma il processo di «ristrutturazione» potrebbe richiedere molto tempo. Frattanto, per stabilizzare le proprie finanze, lo Sri Lanka ha bisogno di 6 miliardi di dollari nei prossimi mesi, anche per scongiurare il rischio di esaurire le sue riserve di carburante. A tal fine, il 27 giugno, Colombo ne ha limitato la distribuzione ai servizi essenziali fino al 10 luglio, chiudendo scuole e uffici pubblici e invitando la popolazione a restare nelle proprie abitazioni. A parte i porti, la sanità e il trasporto di generi alimentari, per i quali i rifornimenti saranno assicurati, tutte le altre attività saranno trasferite, ove possibile, da remoto, altrimenti dovranno fermarsi, incluso, probabilmente, il trasporto pubblico interregionale.
Cina, India, Giappone, Usa: levata di scudi
D’altronde, il 22 giugno, il primo ministro Ranil Wickremesinghe aveva dichiarato in parlamento che l’economia dello Sri Lanka era «completamente collassata», ragion per cui il paese non sarebbe stato in grado di importare carburante, a causa dei pesanti debiti accumulati dalla società petrolifera di Stato, la Ceylon Petroleum Corporation (Cpc). Pertanto, nella stessa occasione, aveva annunciato non solo l’avvio di negoziati con il Fmi, ma anche incontri bilaterali con Cina, India e Giappone, i tre principali paesi creditori, per ottenere aiuti, almeno per garantire la sicurezza alimentare ed energetica della popolazione. New Delhi ha già espresso la propria disponibilità a superare i 4 miliardi di dollari di aiuti già inviati (tra prestiti e scambi), mentre lo Stato indiano del Tamil Nadu ha inviato cibo e medicine. Tokyo, da parte sua, ha accordato a Colombo una sovvenzione di emergenza di 3 milioni di dollari, attraverso il Fondo delle Nazioni unite per l’infanzia (Unicef) e il Programma alimentare mondiale. Intanto, per continuare a importare gas e greggio, lo Sri Lanka ha chiesto un prestito al Qatar, inviando il proprio ministro dell’Energia Kanchana Wijesekera a Doha, per un incontro con il vicedirettore del Fondo qatariota per lo sviluppo. Il 25 giugno, infatti, il ministro dell’Energia Kanchana Wijesekera si è scusato con gli automobilisti, spiegando che le forniture di petrolio, il cui arrivo era previsto per la settimana precedente e per quella in corso, non sarebbero giunte, per problemi «bancari». A parte il Fmi, peraltro, a Colombo, negli ultimi giorni, si è recata anche una delegazione dagli Stati uniti, per «cercare la via più efficace per sostenere la popolazione dello Sri Lanka nel momento del bisogno», come ha detto l’ambasciatrice statunitense Julie Chung, secondo cui Washington si sarebbe impegnata a stanziare oltre 150 milioni di dollari.
Anelli deboli
Secondo Abc News, la grave crisi economica in Sri Lanka consentirebbe all’India di guadagnare terreno rispetto alla Cina, che per il paese, oltre ad essere il primo Stato creditore, è anche il principale investitore. Infatti, poiché l’isola fa parte della rotta marittima delle nuove vie della seta (Belt and Road Initiative, Bri), Pechino ha finanziato diversi progetti infrastrutturali, soprattutto nei porti. In quello di Hambantota, ad esempio, l’Impero del Centro ha stanziato 1,1 miliardi di dollari, ma, nel 2017, i guadagni provenienti dal suo utilizzo non sono stati sufficienti a ripagare questo debito. Di conseguenza, la Cina ha ottenuto, come compensazione, una concessione di 99 anni sul porto e sui terreni circostanti, che le ha consentito di mettere le mani su un’infrastruttura strategica. È questo, dunque, il meccanismo definito «trappola del debito», di cui i detrattori della strategia diplomatica cinese accusano Pechino, che, frattanto, ha iniziato a investire sul porto di Colombo. Tuttavia, la crisi economica srilanchese non si può considerare un effetto della sola intraprendenza geoeconomica della Cina, o della competizione sino-indiana. Oltre all’India, infatti, ci sono Giappone e Stati uniti, mentre tra gli organismi internazionali spiccano i due maggiori enti creditori di Colombo: la Banca asiatica per lo sviluppo, che fa riferimento agli interessi geostrategici nippo-statunitensi, e la Banca mondiale, che, in sostanza, proietta la strategia economica di Washington tra i paesi con reddito medio-basso. Lo Sri Lanka, inoltre, non è solo il teatro dello scontro di potenza tra Usa e Giappone da un lato, India dall’altro (anche se Washington la considera un’alleata preziosa in funzione anticinese, al punto da perdonarle la scarsa fedeltà sul fronte russo) e Cina come terzo polo. Infatti, il paese è dilaniato da profonde divisioni interne, come quelle tra la maggioranza indoaria singalese, in prevalenza buddista, e la cospicua minoranza dravidica tamil, in massima parte indù. Una frattura già emersa nel corso della sanguinosa guerra civile (1983-2009), e riaffacciatasi durante le recenti proteste contro i rincari nel settore alimentare ed energetico.