Peter Brook Aveva 97 anni. La sua fama è legata in modo particolare al kolossal teatrale Mahabhàrata, punto di arrivo di un lavoro multidisciplinare nella regia
Pioniere del teatro sperimentale, prima in Inghilterra e poi in Francia, il regista e sceneggiatore britannico Peter Brook – morto all’età di 97 anni sabato 2 luglio a Parigi, dove si era stabilito nel 1974 – è stato un uomo di spettacolo completo che appartiene di diritto alla generazione europea dei riformatori teatrali della seconda metà del Novecento, regista che ha firmato molte messinscene memorabili, talvolta trasferendole sullo schermo in piena autonomia espressiva.
Con “Il Mahabhàrata”, Brook ha dimostrato che anche il cinema e la televisione possono cimentarsi in modo creativo con i miti dell’umanità, trasformando il grande poema epico indiano in un altrettanto grande spettacolo popolare.
L’attività di Brook rientra in quel contesto sperimentale delle neoavanguardie che ha oltrepassato le barriere fra le arti, praticando un’interazione tra cinema, teatro e televisione. Fautore di una recitazione che sia portatrice di emozioni e di sorprese, il grande regista si è avvalso spesso di attori non professionisti e di diversa provenienza etnica, adottando un metodo di lavoro in cui le azioni si improvvisano sul set o sulla scena, al di là della sceneggiatura, pur prendendo spunto da un soggetto che dà il senso alla storia e che in molti casi viene mutuato da importanti testi letterari o teatrali, o da materiali del patrimonio mitologico e culturale di diversi ambiti e provenienze. Nella pratica artistica di Brook la prospettiva antropologica si è tradotta in vissuto, in esperienza di lavoro, ancor prima delle mode multiculturali degli anni Ottanta.
Brook si impose come acuto interprete del teatro di William Shakespeare e nel 1970 ha fondato a Parigi il Centre international de création théâtrale, dove, sotto l’influenza di Jerzy Grotowski e del Living Theatre di Julian Beck, sono state sperimentate le possibili applicazioni teatrali di un linguaggio non significante, improvvisato e massimamente gestualizzato (“Orghast”, 1971; “Les Iks”, 1975; “Ubu roi”, 1977; “Mahābhārata”, 1985; “Woza Albert”, 1989).
Le concezioni teatrali di Antonin Artaud e l’insegnamento brechtiano risultarono perfettamente coniugati nella messa in scena del dramma di Peter Weiss Marat-Sade. Da questo spettacolo teatrale, che tanta influenza esercitò sulle scene europee di quegli anni, rinnovando gli schemi di regia, Brook trasse il film omonimo del 1966, in cui affronta in maniera esemplare il tema del teatro nel teatro, attraverso la messa in scena della morte di Marat realizzata nel manicomio di Charenton da un gruppo di malati diretto da De Sade; al messaggio egualitario del rivoluzionario, viene contrapposto l’individualismo radicale del Divin Marchese, che assume la disuguaglianza come dato naturale e concepisce la liberazione come rivolta contro le convenzioni sociali e culturali.
(Fonte: AdnKronos)