Il populismo entra nei tribunali oltre che nelle case
Anziché cambiare canale, si vuole impedire a tutti di guardare ciò che non piace ad alcuni
La recente decisione della Suprema Corte degli Stati Uniti sul diritto all’aborto ha provocato un terremoto di coscienze a livello globale. L’opinione pubblica occidentale pare finalmente aver capito che il fatto di essere nell’a.d. 2022, di per sé, non dà alcuna garanzia di tranquillità: da anni, infatti, in tutto il globo assistiamo alla terrificante ascesa del populismo autoritario. Quello secondo cui il compito di chi governa è proteggere il “vero popolo” dai suoi nemici, e chiede sempre maggiori poteri – idealmente pieni – per poterlo fare al meglio.
Dal 2016 ad oggi, con la vittoria di Trump e il dilagare dei partiti di estrema destra in pressoché tutti i Paesi europei, l’occidente si è scoperto più “goblin” di quanto credesse; ha preso atto di avere al proprio interno una parte di popolazione fortemente anti-scientifica, bigotta, intollerante verso qualunque forma di diversità.
La sentenza sull’aborto, tuttavia, ha se non altro avuto un merito: ha riportato in auge un concetto espresso già nel XVIII secolo dai padri del pensiero liberale, ossia il concetto stesso di libertà: facoltà di fare tutto ciò che non nuoce a terzi. Particolarmente virale, sui social media, è diventato il video in cui una giornalista, Ana Kasparian, argomenta contro la decisione della Corte. In estrema sintesi, il ragionamento è: tu, in quanto cristiano, hai tutto il diritto di non ricorrere all’aborto se ciò urta la tua sensibilità religiosa; ma non hai il diritto di vietare quel comportamento a chi non è cristiano.
Stesso concetto espresso, in forma più sintetica, in un tweet da Enrico Letta:
Se non vuoi divorziare non divorzi, se sei anti #aborto non lo pratichi, se sei contro le relazioni omosessuali non le hai. Ma non puoi impedire di fare quel che non sceglieresti per te. Questa è la #laicità dello Stato, una conquista ora in pericolo
Lo strano caso del politicamente corretto (PolCorr)
C’è però un tema su cui la galassia “progressista” sembra voler inserire un’eccezione a questa regola: la satira, in particolar modo quella “politicamente scorretta” (con questo termine intendendosi ogni battuta su una qualsiasi minoranza). Il tweet sovracitato di Letta potrebbe continuare con “non ti piace il mio spettacolo? Non guardarlo!”? No, secondo i fan del PolCorr. Perché? Per il semplice fatto che, secondo costoro, pronunciare da un palco una battuta su una minoranza equivarrebbe ad uno sdoganamento della violenza fisica contro quella minoranza. In parole povere: se lo spettatore di uno show sente pronunciare una battuta sui gay, c’è il rischio che costui, una volta uscito dal locale, corra ad armarsi di spranga e vada a giro per la città a praticare raid omofobi. “Le parole feriscono quanto i coltelli” è il mantra che si sente ripetere all’unisono.
Ora, a questa teoria si potrebbero dare varie risposte. La più immediata è sul piano legale, e consiste nel far notare che – chissà perché – nell’ordinamento italiano il reato di percosse è punito con pene un tantino più severe rispetto alle ingiurie verbali.
Ma tralasciando il freddo e noioso mondo del diritto, la miglior risposta l’ha data Ricky Gervais, nel suo ultimo, contestatissimo spettacolo SuperNature. Una sorta di meta-spettacolo, per lunghi tratti un’apologia della satira “politicamente scorretta”.
Ci sono comici di Oxford e Cambridge che scrivono le regole della comicità e dettano legge. Tutta roba tipo: “L’umorismo deve prendere di mira chi sta in alto e ha più potere”. Ma a volte bisogna mirare in basso: ad esempio, quando devi picchiare un bambino disabile. Se mirate in alto, lo mancherete e vincerà lui. [Risate del pubblico]. È una bella battuta perché evidenzia la differenza tra il prendere di mira i deboli in uno spettacolo comico e il farlo nella realtà. Ma oggi la gente vuole farvi credere che le parole siano violenza.
Avete riso di una battuta sul picchiare un bambino disabile. Non si è fatto male nessuno. Se avessi iniziato a picchiare un bambino disabile per davvero, non avreste riso, giusto? Per questo ho tolto quella parte.
Il caso di Berlusconi nel 2009
Se passasse il principio che una semplice battuta possa essere ritenuta “causa scatenante” di aggressioni, il passo verso la censura totale sarebbe brevissimo. Il perché dovrebbe essere ovvio: ogni individuo, a prescindere da quanto potere detenga, ha il diritto di tutelare la propria incolumità fisica. Che fare, dunque, se un signore con gravi disagi psichici aggredisse fisicamente un Presidente del Consiglio, sul quale – in quanto “uomo di potere” – si erano scagliati i comici progressisti fino al giorno prima?
Potrebbe succedere che la maggioranza di Governo ne approfitti per puntare il dito contro i suddetti comici, chiamandoli “mandanti morali” dell’aggressione.
Questo scenario non è affatto ipotetico. Al contrario, è esattamente ciò che accadde nel 2009, quanto un signore con accertati disturbi psichici – Massimo Tartaglia – scagliò una statuetta del duomo di Milano in faccia all’allora Premier Silvio Berlusconi, ferendolo gravemente. Fu detto allora dal coro dei giornalisti – sia quelli direttamente sul libro paga di Silvio, sia quelli svolgenti analoga funzione ma stipendiati dal denaro pubblico di Mamma Rai – che esistevano dei mandanti morali per quel gesto, e rispondevano ai nomi di Michele Santoro, Marco Travaglio e Vauro Senesi, all’epoca protagonisti nel talk show AnnoZero, condotto dallo stesso Santoro. Enormi sforzi furono profusi per far chiudere quella trasmissione, nonostante fosse tra le più seguite e redditizie dell’intera TV di Stato; sforzi che infine ebbero successo, dato che il programma fu effettivamente chiuso nel 2011.