Povertà e Reddito di cittadinanza. Un’analisi basata sui fatti

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Il RdC ha salvato circa un milione di persone dalla povertà, ma non raggiunge tutti i poveri e fallisce nell’inserimento lavorativo.

Lo scorso 15 giugno l’Istat ha pubblicato l’annuale report sulla povertà in Italia. Nel complesso, i dati non sono incoraggianti: le persone che si trovano in povertà assoluta sono ormai il 9,4% della popolazione, una percentuale triplicata rispetto al 2005 e sostanzialmente stabile rispetto al 2020, anno peggiore della pandemia.

I più colpiti sono i giovani e gli stranieri

Stabili anche i dati disaggregati riguardanti le fasce di popolazione più colpite: nella fascia d’età tra i 18 e i 34 anni l’incidenza è dell’11%, quasi due punti percentuali in più rispetto alla media nazionale. Inoltre, come spiega l’Ansa,

Il dato sulle famiglie con stranieri (…) segnala come queste ultime presentino livelli di povertà assoluta quasi cinque volte più elevati di quelli delle famiglie di soli italiani

L’impatto del Reddito di cittadinanza

Secondo quanto riportato da alcuni quotidiani, analizzando i dati dell’Istat si può dedurre che la misura-simbolo del M5S ha evitato a circa un milione di persone di finire in povertà assoluta: senza sussidi, nel 2020 la percentuale di poveri sarebbe stata di 10 punti più alta.

Il fallimento del RdC come politica attiva del lavoro

Questi numeri possono indurre a riflessioni più ampie.
Innanzitutto, essi dimostrano che il reddito di cittadinanza non raggiunge tutti i poveri in Italia, ma solo una (piccola) minoranza di essi; del resto, i requisiti per ottenerlo sono piuttosto numerosi.
Ma l’aspetto più problematico è un altro, ed è il fallimento oggettivo – numeri alla mano – nell’inserimento lavorativo dei beneficiari. Alcuni commentatori – ad esempio Luigi Oliveri su Phastidio.net – avevano già vaticinato in tempi non sospetti che il RdC sarebbe stato di fatto quasi solo un sussidio, con poca o nulla efficacia nel trovare un lavoro ai beneficiari. Innanzitutto perché circa la metà di essi sono persone non occupabili (affetti da malattie gravi, studenti in corso di studi etc.), e dunque vengono prese in carico dai servizi sociali anziché dai centri per l’impiego.
Per l’altra metà – quella dei teoricamente occupabili – c’è poi il problema della difficoltà di incrociare domanda e offerta di lavoro. Un problema annoso e dovuto a ragioni complesse: per dirla in termini molto semplici, è assai difficile trovare un lavoro a persone con un basso titolo di studio (ricordiamo che l’Italia “vanta” il record europeo di lavoratori che hanno solo la terza media; sono uno su tre), scarsa o nulla conoscenza dell’inglese, magari non automuniti e con poche o nulle esperienze lavorative precedenti. In questa condizione, tuttavia, si trovano molti dei beneficiari del RdC, soprattutto nel Mezzogiorno.
La consueta allergia della classe dirigente italiana alla complessità aveva tuttavia spinto i protagonisti dei governi Conte a pensare di poter risolvere tutto con soluzioni miracolose: prima i Navigator, poi un mirabolante software del Mississipi. Operazioni costate milioni di euro e rivelatesi inefficaci: a gennaio 2020 l’allora presidente Inps Pasquale Tridico – personaggio “non certo sgradito” al M5S e convinto fan del RdC – ammetteva che solo il 3,63% dei beneficiari avviabili al lavoro ne aveva effettivamente trovato uno.

Il problema della “congruità” delle offerte di lavoro

Come se la situazione non fosse già abbastanza complicata, il legislatore ha pensato di aggravarla con il concetto di “congruità dell’offerta di lavoro”: il centro dell’impiego non può, secondo la normativa, sottoporre al beneficiario del RdC qualsiasi offerta, bensì solo quelle che soddisfino determinati requisiti, tra cui:

  • il lavoro deve essere a tempo indeterminato, oppure determinato o di somministrazione di durata non inferiore a tre mesi;
  • deve essere a tempo pieno o con un orario di lavoro non inferiore all’80% di quello dell’ultimo contratto di lavoro;
  • deve prevedere una retribuzione non inferiore ai minimi salariali previsti dai contratti collettivi di cui all’articolo 51 del decreto legislativo n. 81 del 2015

Inoltre, la normativa stabiliva anche altri paletti relativi alla distanza (misurata in chilometri) del luogo di lavoro per il beneficiario.

I centri dell’impiego come centri del mondo

Dulcis in fundo, il decreto legislativo – in osservanza alla visione fortemente statalista che da sempre anima il M5S – ha pensato bene di incentrare l’intero processo sui centri per impiego pubblici. L’imprenditore che volesse assumere un beneficiario del RdC deve obbligatoriamente passare dai CPI; una prassi scarsissimanete usata, in Italia, come dimostrano le disastrose performance dei CPI stessi (trova lavoro l’1,85% di chi vi si rivolge).
Ad oggi, un emendamento al “Decreto aiuti” consentirebbe ai datori di lavoro di sottoporre offerte (congrue) direttamente ai beneficiari del RdC, senza passare dai CPI.

Una misura di civiltà, ma da migliorare

A dispetto di quanto traspare dal dibattito pubblico, sul RdC partiti e opinionisti hanno una visione piuttosto unanime: si tratta, di per sé, di una misura di civiltà, che non a caso esiste pressoché in ogni Paese civile e che – è bene ricordarlo – esisteva anche in Italia prima dell’avvento del M5S, seppur con altre forme e nomi (NaSPI, Reddito di inclusione). Al tempo stesso, è una misura incentrata su un’idea sbagliata: contrasto alla povertà e politiche attive del lavoro sono temi distinti, per i quali servirebbero politiche e strategie differenti. L’illusione di poter trovare un lavoro a tutti i beneficiari (o anche solo alla maggior parte di essi) è costata milioni ai contribuenti e si è rivelata un flop clamoroso.

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