Il trionfo del partito liberal-democratico dopo l’assassinio dell’ex primo ministro Shinzo Abe potrebbe non significare necessariamente scelta della continuità
La società giapponese, infatti, si districa tra diseguaglianze economiche e una crescente volontà di potenza in salsa nazionalista
Nazionalismo sottile e obbligo di pacifismo
Alle elezioni per il Senato del Giappone, tenutesi il giorno dopo l’uccisione dell’ex primo ministro Shinzo Abe, il Partito liberal-democratico (Pld, destra nazionalista) e il suo alleato Komeito, hanno riportato una vittoria schiacciante. Apparentemente, dunque, gli elettori hanno scelto la continuità, secondo alcuni analisti anche sull’onda di una reazione emotiva collettiva. Tanto più che, malgrado l’inflazione e le diseguaglianze sociali (incluse quelle di genere), la politica economica di Abe, la cosiddetta «Abenomics», portata avanti dal suo successore Fumio Kishida, sembrava aver posto fine ad anni di stagnazione, mentre la sua dialettica imperiale aveva risvegliato la volontà di potenza di un paese condannato alla subalternità dalla sua stessa costituzione. Al punto, ad esempio, da non potersi dotare di un esercito, vedendo le proprie forze armate ridotte a «forze di autodifesa», per la cui marina, peraltro, aveva servito l’assassino di Abe. Infatti, anche se l’inasprimento dei rapporti al contempo con Cina, Corea del Nord e Corea del Sud (alleato strategico degli Stati uniti, nonostante qualche scaramuccia commerciale), provocata dai toni nazionalistici dell’ex primo ministro, può essere considerata una mossa rischiosa, la sua intenzione, più volte ribadita, di modificare le restrizioni costituzionali agli armamenti e alla «difesa» gli avevano garantito una certa popolarità. Così come, d’altronde, l’aumento, sia nel 2021, sia nel 2022, delle spese militari fino al 2% del prodotto interno lordo in cinque anni, con il tacito assenso di Washington, in funzione anti-cinese. Tuttavia, la mancata modifica della carta costituzionale tra le frange più nazionaliste del suo partito, soprattutto considerando che uno degli slogan più celebri di Abe recitava: «la politica esige risultati».
Narrazione da potenza mutilata
Mentre si formulavano le prime ipotesi sui moventi dell’uccisione di Abe, molti media, tra cui Rai News, hanno fatto riferimento all’appartenenza di quest’ultimo all’associazione ultranazionalista e ultraconservatrice Nippon Kaigi («Conferenza del Giappone», fondata nel 1997), di cui, del resto, fanno parte, oltre all’attuale primo ministro Kishida, 206 dei 710 membri della Dieta nazionale giapponese. Inizialmente, infatti, era stata interpretata in tal senso la motivazione fornita dall’assalitore di Abe, Tetsuya Yamagami, durante un interrogatorio, ossia il «risentimento verso un’organizzazione specifica» con cui l’ex primo ministro avrebbe avuto legami. D’altronde, tra gli obiettivi dichiarati di Nippon Kaigi c’è «una nuova costituzione adatta a una nuova era»: una fase, dunque, improntata alla crescente consapevolezza del proprio peso geostrategico da parte di un paese che ospita la più grande base navale di Washington nel Pacifico, quella di Yokosuka, formalmente gestita in modo congiunto dalla potente Sesta flotta statunitense e dalla marina giapponese. Quindi, se la pista di Nippon Kaigi si fosse rivelata corretta per le autorità di Tokyo, tenendo conto altresì degli omicidi politici che costellano la storia giapponese dopo il secondo conflitto mondiale (di cui si può trovare una rapida disamina, ad esempio, sul sito dell’agenzia stampa turca Anadolu), l’assassinio di Abe si sarebbe potuto ritenere come un sintomo di un’insofferenza serpeggiante nei confronti della condizione di potenza mutilata cui il paese si sente, in qualche modo condannato dagli Usa. Tuttavia, finora, l’ipotesi giudicata più plausibile dagli inquirenti sembra quella che collega l’attentato all’ex primo ministro all’appartenenza della madre di Yamagami alla Chiesa dell’unificazione, la setta creata dal nordcoreano Sun Myung Moon e nota in Italia soprattutto per le vicende dell’ex arcivescovo Emmanuel Milingo.
Le chiavi dell’Indo-Pacifico
Sarebbe dunque questa la «specifica organizzazione» cui alludeva Yamagami, che agli investigatori avrebbe raccontato di aver sparato, il 7 luglio, un colpo con un arma da fuoco artigianale (non si sa se fosse la stessa utilizzata il giorno successivo contro Abe) contro l’edificio della Chiesa dell’unificazione vicino alla sua abitazione. Inoltre, questa setta, sebbene non abbia rapporti diretti ufficiali con Abe, è legata alle vicende politiche di suo nonno Nobosuke Kishi, che, come altri politici conservatori del secondo dopoguerra giapponese, cercava il sostegno dei gruppi religiosi per contrastare la diffusione di idee legate a movimenti comunisti e socialisti. Kishi, dunque, avrebbe creato un’associazione legata alla setta di Moon. Peraltro, come riporta il Guardian, a settembre 2021 Abe aveva inviato un messaggio di congratulazioni a un’iniziativa organizzata dalla Federazione per la pace universale, affiliata alla Chiesa dell’unificazione, mentre più volte era stato criticato per aver pronunciato discorsi in occasione di eventi promossi da questa setta. Peraltro, i punti di contatto tra formazioni religiose e classe politica in Giappone (nonostante la costituzione impedisca a queste organizzazioni di avere autorità politica) sono stati evidenziati, negli ultimi giorni, da testate come il Wall Street Journal statunitense e il Global Times cinese. Tanto per Pechino, quanto per Washington, infatti, sia pure in opposte direzioni, l’ascesa geopolitica di Tokyo riveste un interesse notevole, in un contesto di generale inasprimento delle tensioni internazionali, esplose, finora, in Ucraina, sul fronte europeo orientale. Frattanto, gli Usa hanno aumentato negli ultimi mesi le pressioni sull’Impero del Centro nell’Indo-Pacifico, dove il Giappone è un membro chiave del Quad, il «quadrilatero democratico» a guida statunitense, di cui fanno parte anche India e Australia. Di conseguenza, se la retorica imperiale giapponese dovesse oltrepassare il limite degli interessi geostrategici di Washington, centrati sul contenimento della potenza cinese, giungendo all’elaborazione di un proprio progetto geopolitico autonomo, gli Usa rischierebbero di perdere un alleato essenziale. Uno sviluppo che coinvolgerebbe anche il fronte russo, dal momento che con Mosca, Tokyo ha in corso l’aspra controversia sulle isole Curili. In altri termini, potrebbero trovarsi di fronte a un alleato riluttante nel Pacifico, dal potenziale analogo a quello che la Turchia possiede tra Asia centrale, Balcani, Maghreb ed Europa.