Meno posti in Parlamento, più posti nelle municipalizzate?

Dopo che la riforma costituzionale ha tagliato il numero dei parlamentari, c’è da aspettarsi una vasta opera di ricollocamento dei politici “trombati” nelle municipalizzate.

Una delle poche cose certe del prossimo Parlamento è che ci saranno meno rappresentanti: 600 in tutto, di cui 400 alla Camera e 200 al Senato. Effetto della legge costituzionale approvata nel 2020 e fortemente voluta dal Movimento 5 Stelle, che poteva così vantarsi di aver ridotto i costi della politica.
Nella campagna elettorale per quel referendum – approvato a furor di popolo – qualche esponente della sempre più ridotta categoria sociale dei raziocinanti aveva provato a far notare che i risparmi derivanti dal taglio erano irrisori (circa 57 milioni di euro l’anno, pari allo 0,007% della spesa pubblica italiana); a tale osservazione scattava immediata la replica che ciò era pur sempre meglio di niente.

Ora che si avvicina il momento del voto, tuttavia, tra chi conosce la politica italiana comincia a serpeggiare il sospetto che i partiti si stiano già attrezzando per aggirare gli effetti del taglio. Di ciò ha parlato Mario Seminerio, nell’ultimo episodio del suo podcast settimanale “la settimana phastidiosa”.

Avremo un Parlamento di 600 persone, anziché di 950 circa, a parte tutti gli altri che, in un modo o nell’altro, dovranno essere collocati, probabilmente nel “sottobosco”. Che potrebbe anche essere quello delle imprese pubbliche, delle municipalizzate: avremo il trionfo delle in house, degli appalti pubblici, del “neo-keynesismo”. Avremo il trionfo – a destra e a sinistra – di quelli che vi diranno che è fondamentale creare delle entità pubbliche per combattere contro il turboliberismo e poter accomodare i falliti che sono rimasti trombati da questa troncata al numero dei seggi disponibili.

Le municipalizzate in Italia: razionalizzazione mai avvenuta

Tema annoso, quello delle municipalizzate. In Italia ce ne sono circa 7500, come ha spiegato la Corte dei Conti in un report del 2019. Erano quasi 10.000 ai tempi del governo Renzi, che si era ripromesso di ridurne il numero in modo drastico, “da 10.000 a 1000”; Carlo Cottarelli, all’epoca commissario alla spending review, aveva anche redatto un programma di razionalizzazione, con tanto di individuazione delle aziende maggiormente voraci per le casse dello Stato. Il resto è storia: Cottarelli lasciò l’incarico dopo un anno, e il suo piano non fu mai del tutto attuato, più che altro per volontà delle amministrazioni comunali. Tra l’altro, come riportò Il Fatto Quotidiano, lo stesso esecutivo Renzi non fu esente da ricollocamenti “strategici” di membri del cosiddetto “giglio magico”.

Tra lotta al “neoliberismo” e costi (veri) della politica

La prassi di far finire nelle municipalizzate politici non eletti in Parlamento è anch’essa piuttosto consolidata, nel Belpaese. I partiti sono i primi a saperlo, e infatti puntualmente qualcuno se ne esce con nuove mirabolanti idee su come stroncare questa piaga.

Sull’efficienza delle aziende pubbliche – o, quantomeno, di alcune di esse – i dati sono altrettanto noti. Gli abitanti della Capitale possono tranquillamente riferire dell’efficienza di Atac o di Ama, mentre la recente siccità ci ha drammaticamente ricordato che il sistema idrico nazionale è mediamente un colabrodo.

Eppure, questo costante sperpero di risorse pubbliche e annessa inefficienza continua ad essere sostanzialmente tollerato dalla maggior parte dell’opinione pubblica, che pare molto più spaventata dall’idea di vedere privatizzati i servizi pubblici. Al referendum di due anni fa voluto dai Radicali sulla liberalizzazione di Atac, a Roma, partecipò solo il 16,4% degli aventi diritto (la maggioranza dei quali, prevedibimente, votò “sì” alla liberalizzazione).

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