L’ambiente lavorativo all’interno del mondo giornalistico non è sempre così patinato e creativo come lo si immagina. Ci sono dinamiche comuni a molti lavori. Queste creano disagi e stress in molti lavoratori, anche quelli con più talento e creatività.
Negli ultimi tempi si sta sempre più parlando di un fenomeno chiamato quiet quitting la cui diffusione ha contribuito a mettere luce a interrogativi sulla qualità e le ripercussioni emotive che il mondo del lavoro ha nella vita quotidiana di ognuno di noi. La giornalista Ambra Radaelli su questa tematica ha scritto un romanzo molto interessante intitolato “Coccodè. Una storia di quiet quitting”, edito da Mursia.
Attraverso il personaggio di Elena, giovane giornalista di origine calabrese che ama scrivere e che dopo un master in giornalismo si ritrova a lavorare in un femminile di un prestigioso marchio editoriale ligure, il lettore sarà proiettato in un mondo lavorativo in cui non mancano ingiustizie, umiliazioni e raccomandazioni che si ripercuotono sull’ambiente lavorativo stesso e sullo svolgimento del lavoro all’interno di un ambiente che diventa sempre più soffocante e umiliante per chi come Elena vuole dimostrare il suo talento e le sue competenze.
Un libro molto interessante quello della Radaelli che ci fa riflettere tanto sul mondo lavorativo italiano odierno che lascia poco spazio al merito e al talento. Grazie ad esso molti lettori potranno confrontare la propria esperienza lavorativa. Di quiet quitting e di come sia difficile per le donne emergere in un mondo lavorativo ancora segnato da pregiudizi e patriarcato conversiamo con Ambra Radaelli in questa esclusiva intervista.
Partiamo dall’origine, com’è nata l’idea di scrivere questa storia ambientata nell’ambiente giornalistico e che rivela una realtà diversa da quella che si immagina?
Il mio intento era parlare in generale del mondo del lavoro, dove le donne sono spesso molestate e mobbizzate, praticamente sempre discriminate: questo mi hanno riferito negli anni amiche e conoscenti che lavorano negli ambiti più diversi. Per questo motivo, qualsiasi donna che lavori in un’azienda e non abbia “protezioni” potrà riconoscersi nelle mie pagine. Il romanzo si svolge in una redazione per due motivi. Il primo: sono nel giornalismo da 23 anni, ho girato diverse testate, per cui so descrivere l’ambiente in maniera assolutamente realistica (nulla so di altre realtà lavorative benché, ripeto, mi risulta che le dinamiche siano le stesse ovunque). Il secondo: il giornalismo è ancora l’aspirazione di molti giovani, e volevo mostrare che anche sotto una realtà scintillante si può celare molta negatività.
Come potremmo definire il quiet quitting?
Il fenomeno è sempre esistito ma se ne è parlato soprattutto negli ultimi tempi, a seguito del Covid, che ha spinto molti a chiedersi se il lavoro non abbia eccessivi costi emotivi e ripercussioni sulla vita privata. Il dipendente fa solo ciò che deve nel rispetto dell’orario, rendendosi inattaccabile dal punto di vista disciplinare, ma di fatto sottraendo idee, disponibilità, entusiasmo. Una grave perdita per qualsiasi datore di lavoro. Elena, la protagonista del libro, è vittima di mobbing: le viene chiesto di lavorare sempre di più, con incarichi sempre più umili, ciò nonostante il suo lavoro viene pesantemente criticato, la sua persona offesa e sminuita, con l’obiettivo di spingerla a dimettersi. Va detto che l’editoria attraversa da anni una crisi forse irreversibile, per cui trovare un nuovo lavoro è escluso. Il quiet quitting è, per Elena, una strategia di sopravvivenza: una strategia amara, perché ha sempre amato il giornalismo.
L’ambiente di lavoro in cui troviamo Elena, la protagonista del tuo romanzo, è un ambiente femminile e testimonia quanto spesso le donne fanno fatica a “fare squadra” rispetto agli uomini. Secondo te perché c’è tanta competizione tra donne?
La ragione è nel patriarcato. Le donne non si sostengono a vicenda perché, per sopravvivere, sanno di dovere stare dalla parte dei più forti, che fino a pochissimi decenni fa erano solo gli uomini. Veniamo da millenni di storia in cui una donna senza protezione maschile era esposta a pericoli di ogni tipo. Il fatto che, nel mio libro, i vertici del giornale siano in gran parte donne non conta: è il potere che bisogna ingraziarsi. In genere questo implica il sacrificio di qualcun altro, che sia un rivale o semplicemente sgradito al potere stesso. Da notare come i colleghi uomini non siano mai messi in discussione, in quanto rappresentanti di quel potere millenario, solo in virtù del loro sesso. Un retaggio del genere non cambia nel giro di due-tre generazioni. Una volta introiettato il meccanismo – e si comincia fin dalla nascita, purtroppo – serve un importante lavoro su di sé per affrancarsene. Superfluo dire che le colleghe di Elena non solo non lo hanno fatto, ma neppure sospettano che esista, e comunque non sono interessate, non gli conviene.
Una triste realtà che emerge da Coccodè è che il mondo del lavoro italiano è pieno di gente raccomandata e che a causa di ciò, la qualità del lavoro spesso si perde. Cosa ne pensi al riguardo?
Penso tutto il peggio possibile, ovvio. Lo dico chiaramente nel libro: “A mandare avanti i raccomandati perdiamo tutti: i lettori dei giornali, i pazienti dei medici, gli assistiti degli avvocati, il pubblico del cinema, tutti, tutti, tutti perdiamo”. In più vengono umiliate le persone preparate e volenterose, relegate alle mansioni di basso livello e mai prese in considerazione per aumenti di stipendio, promozioni, incarichi di prestigio. Gente sacrificabile, insomma. A lungo andare, non c’è da stupirsi che “scali la marcia”, e adotti il quiet quitting. Un danno per le persone stesse, che vedono il lavoro solo come un male necessario, e per chi se ne avvale, che si ritrova con dipendenti demotivati. Da ragazza, amici che frequentavano la Bocconi mi dissero che nel centro-nord Europa, nell’economia e finanza di alto livello, essere raccomandati è un demerito: significa che la persona non è abbastanza preparata e necessita quindi di un “aiutino”. Non so se sia vero, e lungi da me pensare che basti andare a Chiasso per trovarsi in paradiso. Certo che un discorso così in Italia fa ridere (purtroppo).
Questo fenomeno può subire dei cambiamenti secondo te? Se sì come?
Come per il patriarcato e il potere è difficile se non impossibile modificare la mentalità. C’è anche chi vorrebbe alzare la testa, ma sa che ne subirebbe le conseguenze. Cambiare lavoro? Arduo, e poi i meccanismi sono gli stessi dappertutto. Alla fine del libro azzardo una proposta di legge: no ai parenti e coniugi nella stessa azienda, private comprese. Se il genitore ha un’attività professionale potrebbe trasmetterla al figlio, ma con l’obbligo di assumere altre due persone con stessi stipendio e mansioni. Resterebbero fuori amanti e amici (le famose “cordate”), ma non si può avere tutto.
Quanto di Ambra Radaelli possiamo rintracciare nel personaggio di Elena?
Elena è chiunque di noi si sia trovata in una situazione analoga. Qualcuno mi ha detto che è troppo cupa, rabbiosa, supponente, severa per risultare simpatica. Che tutti fanno degli sforzi tranne lei. Io la vedo invece come una donna che annaspa in salita, che tenta di mettersi in salvo sapendo di essere sola e, soprattutto, che conosce troppo bene i meccanismi e le persone da cui è circondata per sperare che cambino. Soprattutto, non potrà essere lei a cambiarli (anche se all’inizio ci prova). Non so quanto ci sia di me in lei. Di certo capisco la sua rabbia e il suo dolore.
Un consiglio che darebbe alle “tante Elena” che vivono ambienti lavorativi che lasciano poco spazio al merito e alla creatività?
Non credo che si possano dare consigli alle “Elene”. Non a caso il libro ha un finale quasi favolistico (e per questo è stato criticato: “Certo, facile. Arriva l’amica-fata con la becchetta magica e risolve tutto”), ma è proprio perché una soluzione reale non esiste, i famosi meccanismi sono troppo forti. Tuttavia, volevo regalare alla mia protagonista una possibile felicità. Mi viene più facile dare consigli agli altri personaggi, ovvero colleghi e capi. Siate giusti, rispettosi e corretti, anzitutto per una vostra dignità personale ma anche per ragioni utilitaristiche: ciò che diamo ci ritorna, il bene e il male.