L’adolescenza è sempre stata una fase delicata della via di un individuo. Ce lo conferma il protagonista del nuovo libro di Elena Moretti dal titolo Testa di Mango, edito da Mursia.
Andrea è un quindicenne milanese, convinto di esercitare una forma di controllo su tutto e su quelli che considera “amici”. Fresco di bocciatura viene spedito dai suoi genitori a trascorrere tre mesi, a casa della zia Angelica. in Abruzzo. Qui dovrà fare i conti con una realtà completamente diversa da quella milanese.
Si ritroverà a dover investire sulle proprie risorse interiori e le sue capacità per sopravvivere a questa vacanza forzata che sarà fonte di nuovi insegnamenti e ispirazione. Imparerà a conoscere la comunità africana della zona, quella nei confronti della quale ha sempre nutrito tanti pregiudizi. Metterà in discussione il significato di condivisione e amicizia che si riveleranno di vitale importanza per attivare quel processo di cambiamento ed evoluzione tanto agognato.
Testa di Mango è un vero e proprio romanzo di formazione, consigliato non solo agli adolescenti ma anche e soprattutto agli adulti, genitori ed educatori per immergersi nel mondo degli adolescenti per comprenderne dinamiche e vissuti e insieme cercare di creare un dialogo aperto e autentico su varie tematiche come il bullismo e il rispetto nei confronti del diverso. Di com’è nata l’idea di scrivere questo libro e del mondo adolescenziale d’oggi conversiamo con Elena Moretti in questa ispiratoria intervista che ci fa luce su diverse tematiche attuali.
Come e quando è nata l’idea di scrivere questo romanzo di formazione?
L’idea di dar vita a delle storie è una costante nella mia testa, il problema è che, solitamente, mi manca il tempo materiale per scrivere. Per qualche anno, in questo caso, mi è mancata anche l’idea giusta, visto che stavo trascinando un altro racconto, che però non voleva decollare. Parliamo ancora del 2018; poi quell’estate, per caso, mia madre mi raccontò le bravate del figlio dei gestori dell’albergo dove era stata in vacanza, e da lì è scattata la scintilla. In pochi giorni ho ordito lo scheletro della storia, che come al solito ha preso il volo ed è andata poi dove ha voluto, alla faccia della mia idea iniziale. Il tempo per scriverla, in ogni caso, continuava a latitare: se non fosse stato per la fase I del COVID, credo che sarebbe ancora tutto fermo al capitolo 10!
Dal tuo romanzo emerge uno spaccato di vita degli adolescenti di oggi. Si può ancora definire una fase della vita difficile?
Io sono solo una farmacista, quindi la mia opinione in tal senso non è certo quella di un esperto sociologo, ma non credo sia mai esistita un’epoca dove l’adolescenza sia stata una fase semplice, né tanto meno ritengo che lo sia al giorno d’oggi. Questo perché il passaggio dall’infanzia all’età adulta è biologicamente complesso e rappresenta una fase intrinsecamente dolorosa. Ed è giusto così. Oserei dire vitale.
Sebbene non ci piaccia ammetterlo né ricordarlo, soprattutto quando si tratta dei nostri figli, è la sofferenza che ci fa crescere, anche se è per i momenti belli che vale la pena di vivere.
L’adolescenza è il momento in cui la sofferenza del soggetto giovane detona. Mi pare però di annusare che questo spaventi molto di più gli adulti di oggi di quanto non turbasse quelli di ieri. Mi chiedo dunque se siano gli adolescenti di oggi ad essere più fragili di quelli di un tempo, o se invece non lo siano gli adulti che dovrebbero essere per loro un riferimento. Perché in mancanza di riferimenti solidi, l’adolescenza si trasforma in un fumetto dalle vignette prive di contorni. Ma, si sa, i contorni sono gli unici posti dove si possano poggiare i piedi per alzarsi e camminare finalmente con le proprie gambe…
Una delle tematiche che affronti è la condivisione e convivenza pacifica tra popoli provenienti da culture diverse. Quali sono gli ingredienti per realizzare ciò secondo te?
Personalmente adoro la diversità, nel corpo e nell’anima: è ciò che ci rende persone. Non amo invece le classificazioni e i giudizi a priori. Ritengo quindi che il primo ingrediente per convivere in armonia sia banalmente cercare di conoscerci come individui invece di giudicarci a priori in base alla nostra comunità di appartenenza. E questo vale da entrambe le parti: noi diamo per scontato di poter sputare giudizi sugli stranieri arrivati qui, ma difficilmente ci domandiamo cosa loro pensino di noi, dei nostri valori (o disvalori) e del nostro stile di vita. E invece anche loro, guarda caso, ci osservano e ci giudicano. E parlano (o sparlano) di noi. In tal senso per me è stato divertente e illuminante, nonché fondamentale per scrivere questo romanzo, il libro “Il cielo sopra Ibraima” di Penda Thiam e Giuseppe Cecconi (Giovane Africa edizioni), comprato in spiaggia da un ambulante, che racconta come la comunità senegalese in Italia giudichi noi autoctoni. Tornando al romanzo, urge una piccola precisazione: Andrea non ha pregiudizi solo nei confronti degli immigrati, li ha verso le ragazze, gli adulti in generale, gli artisti… è un concentrato di pregiudizi, o forse, ne porta con sé uno solo, che è un po’ il pregiudizio di noi occidentali: si sente migliore di chiunque altro. E in virtù di questo si sente in diritto di denigrare chiunque. Il romanzo non è altro che il suo progressivo scoprire le proprie magagne e i propri limiti, ma anche le sue reali capacità. Attenzione, però: non è la cultura di chi incontra a fargli cambiare idea. Sono le persone che riescono nella magia di cambiarlo, perché sono persone in gamba. A riprova di ciò, anche una volta abbattuto il muro dei suoi pregiudizi e annusata la cultura senegalese, Andrea non la fa propria: ne prende il buono, lasciando indietro altri aspetti che non lo convincono. E il risultato sarà qualcosa di unico: il ragazzino vacuo e borioso esprimerà una personalità originale e inizierà a progettare sul serio il proprio futuro. Sarebbe molto bello se questo potesse essere anche il percorso di crescita della nostra società. Purtroppo, alla prova dei fatti, non mi sembra che ci stiamo impegnando per camminare in tal senso.
Ad un certo punto della sua esperienza in Abruzzo, Andrea, il protagonista di Testa di Mango si ritroverà a riflettere sul vero senso dell’amicizia e su quali sono gli amici autentici. Quanto è importante contare su di essi durante l’adolescenza?
Un sacco. L’adolescenza è il periodo in cui si lascia il nido, ma non per volare in solitaria, bensì per trovare il proprio posto in un gruppo di pari. Se le amicizie sono sane, probabilmente l’adolescenza sarà sana. Dolorosa, ma sana. Se le amicizie sono malate, l’adolescenza sarà malata. Credo che bullismo, vittimismo, disturbi del comportamento alimentare e hikikomori siano tutti fenomeni riconducibili in qualche modo a un vissuto aberrante dell’amicizia. Nel romanzo, il protagonista parte convinto di avere tonnellate di amici e di essere un mago nel saperli intrattenere. Gradualmente si rende invece conto di non aver mai conosciuto nessuno sul serio. Si accorge che quelli che considerava amici sono, nella sua testa, poco più di sagome di cartone sullo sfondo della noia. Per costruire nuovi legami Andrea dovrà mettersi in gioco, sentirsi umiliato, rivedere quelle che credeva le sue doti e imparare a metterle a frutto. Ciò che otterrà, però, non sarà solo la conoscenza profonda di altri ragazzi, ma anche quella di sé stesso. Ho sempre creduto infatti che per capire chi siamo occorre specchiarci negli altri. Non basta star lì a farsi paranoie e a guardarsi dentro invano. E questo è vero soprattutto per i giovani d’oggi, che, a differenza di Andrea, hanno spesso una bassissima opinione di sé, dato che ancora non hanno avuto modo di mettersi in gioco in ambiti diversi dalla scuola e dallo sport, quindi non hanno una reale percezione del proprio valore come persone.
Andrea, come molti adolescenti di oggi, fa fatica ad esprimere le sue emozioni. Che ruolo hanno i genitori nel diffondere l’importanza e la consapevolezza del proprio bagaglio emozionale?
Andrea è un quindicenne sorprendentemente abile con le parole, eppure non riesce a trovarne di adatte per descrivere quel che gli si agita dentro. In questo mi sono ispirata alla quindicenne che ero, che sentiva il dibattersi della propria anima molto più grande di qualsiasi parola usata per catturarlo. Penso che dare un nome al proprio vissuto sia una delle grandi sfide che l’adolescenza pone davanti a ciascuno di noi e in questo, come dicevo, è vitale il confronto con l’altro. Con gli amici, certo, ma anche con gli adulti, a patto di trovarne di disposti a mettersi in gioco senza troppi veli. Cosa non semplice, soprattutto da parte dei genitori: ricoprendo un ruolo particolare nei confronti dei figli, è facile che cadano nell’inganno di voler dare ai ragazzi una certa immagine di sé, invece di puntare a farsi conoscere per quel che sono, miserie comprese. Ma l’adolescente è iconoclasta per definizione e in genere odia le false immagini, che creano una barriera fra individui invece di una vicinanza umana. I ragazzini, per barcamenarsi nel casino che hanno dentro, necessitano di punti di riferimento e un adulto che non abbia le palle di mostrarsi per quel che è non è tale. Come non lo è chi pretende di mostrarsi infallibile. Non per chi si sente un disastro ambulante, quantomeno. E la maggior parte dei giovanissimi si percepisce tale, sotto sotto.
Attualmente, uno dei grossi problemi che mi sembra di intravvedere è che i genitori sono spesso assenti per troppe ore dalla vita dei propri bambini; per compensare, però, creano attorno ad essi un ambiente su misura, ovattato, facilitato e iperprotetto, dove il bambino è sovrano assoluto. Il dramma è che, con il passaggio all’adolescenza, spesso nel genitore questo atteggiamento perdura. Purtroppo però non esiste un mondo a misura di adolescente, perché la misura dell’adolescenza è proprio l’assenza di misure. E infatti molti di essi crollano rovinosamente proprio quando devono cominciare a fare i conti con il mondo per quel che è: uno schifo in cui loro non sono sovrani, ma solo persone chiamate alla devastante fatica del vivere. Fatica alla quale non sono minimamente abituati.
Nel romanzo il cambiamento di scenografia (da Milano dove vive con i genitori, alla riviera abruzzese dove abita la zia) è molto importante per il protagonista, ma vitale è il fatto che in questo differente scenario dovrà cavarsela da solo, senza il soffocante assistenzialismo di sua madre. Andrea, nel nuovo contesto, si ritrova praticamente in mutande e deve mettere in gioco tutte le sue risorse, anche quelle che non pensava di possedere: è questo a permettergli di crescere, insieme all’esempio delle persone che incontra. Ed è questa opportunità, io credo, che stiamo togliendo a questa generazione: quella di confrontarsi con la vita senza i parastinchi, il caschetto e un materassino per attutire i colpi.
Per contro, fra noi ci sono ragazzini migranti soli che hanno passato mesi, se non anni, soli nelle mani di trafficanti d’uomini, con tutto ciò che questo comporta. Nel descrivere la contrastata amicizia fra Testa di Mango e Cheikh, ho voluto raccontare proprio l’incontro-scontro fra queste due realtà di adolescenti, ma soprattutto il lento maturare della stima e della complicità fra di loro, anche quando a pelle non c’è simpatia: Cheikh, che ha passato il deserto e la Libia sognando di studiare in Italia, è nato come negativo del protagonista, sia nel vissuto, sia nel carattere. I due sono sempre in disaccordo e matureranno una curiosa amicizia “alla Tom e Jerry”, ma pian piano impareranno a rispettarsi e insieme organizzeranno uno spettacolo meraviglioso, che lascerà a bocca aperta tutto il paese.
C’è un personaggio di Testa di mango al quale sei particolarmente affezionata e perché?
Probabilmente zia Angelica: darle vita e farla muovere è stato davvero divertente! Per carità, lei è un’artista a 360 gradi, per di più sballatissima, e io solo una farmacista prestata alla scrittura, ma entrambe viviamo fuori dal mondo e ce ne freghiamo, cosa che me la fa sentire vicina. Altro lato in comune, le poche “menate”: anche quando Andrea viene pescato dai carabinieri, la zia si limita a tagliarlo in due con una frase ben assestata, senza scenate lunghe giorni. Atteggiamento che apprezzo moltissimo, soprattutto in una donna, e cerco quindi di replicare in famiglia. Con quanto successo, andrebbe chiesto ai miei figli…
A chi consigli la lettura di Testa di mango?
“Testa di Mango”, per la leggerezza dei suoi toni, è un libro adatto ai ragazzi, ma, per lo spessore delle tematiche affrontate, io spero che abbia molto da dire anche agli adulti, non solo genitori o educatori. A me piace moltissimo raccontare lo schiudersi di un spirito: la maturazione, la crescita, la presa di coscienza di sé, l’apertura del singolo all’altro e al mondo… Trattare queste tematiche incentrandosi su protagonisti adulti è più difficile, per questo scrivo di ragazzi. Solitamente la mia fantasia frulla sui giovani, perché credo moltissimo in loro e nella carica che si portano dentro. Li trovo straordinari. Anche e soprattutto quelli della nostra epoca, che tutti denigrano (ma è mai esistita un’epoca in cui gli adulti parlassero bene dei giovani?). Per questo mi auguro di incantare anche “i grandi” e di contribuire a cambiare la narrazione tossica sulle nuove generazioni a cui ormai siamo assuefatti.