Il punto degli esperti riuniti a Roma per il congresso Floretina Icoor.
Un ‘buco’ nel mezzo del campo visivo. La degenerazione maculare legata all’età interessa oggi oltre un milione di italiani ed è fra le emergenze con cui i ‘medici degli occhi’ dovranno confrontarsi sempre più spesso nei prossimi anni. Forti però di un armamentario di cure sempre più variegato, dai nuovi farmaci alla terapia genica, e dell’aiuto offerto dalle nuove tecnologie e dall’intelligenza artificiale. Fanno il punto gli esperti riuniti a Roma per il congresso Floretina Icoor 2023.
“La maculopatia è una patologia che compromette in maniera significativa la qualità di vita dei pazienti ed è molto diffusa: riguarda il 2% degli italiani e aumenta al crescere dell’età – spiega Stanislao Rizzo, presidente Floretina Icoor, direttore della Clinica oculistica del Policlinico universitario A. Gemelli Irccs di Roma e professore ordinario di Oculistica all’università Cattolica – E’ ormai una malattia sociale e rappresenta la causa più frequente di ipovisione e disabilità visiva dopo i 50 anni nel mondo occidentale. Ne esistono due forme: quella ‘secca’, la più comune (circa il 90% di tutte le forme), e quella umida o essudativa. La maculopatia umida fino a qualche anno fa non era considerata curabile, ma i progressi terapeutici degli ultimi anni hanno consentito di rallentarne notevolmente la progressione e di ridurne la evoluzione”.
“Purtroppo – mette in guardia lo specialista – molti pazienti arrivano alla diagnosi in ritardo perché non si sottopongono a visite oculistiche di controllo dopo i 50 anni e perché trascurano i sintomi iniziali, costituiti principalmente dalla visione un po’ distorta delle immagini. Se l’altro occhio è sano, accade di non accorgersene subito e il disturbo progredisce fino ad arrivare alla comparsa di una macchia scura potenzialmente irreversibile e indistinta in mezzo al campo visivo. L’obiettivo della ricerca di questi ultimi anni è stato perciò trovare farmaci che potessero essere più efficaci nel ritardare la progressione della perdita visiva, agendo anche su altri fattori di crescita coinvolti, e che rendessero più agevole la cura riducendo la necessità di somministrazioni intravitreali”.
Una delle novità in arrivo riguarda la maculopatia secca, dovuta alla formazione di depositi giallastri sotto la macula (la parte centrale della retina, responsabile della visione fine) con atrofia del tessuto retinico, e caratterizzata da una riduzione della visione centrale in genere più graduale e lentamente progressiva. “Nei pazienti con maculopatia secca, nelle forme più avanzate, al momento orfane di terapie – sottolinea Donald J. D’Amico, professore di Oftalmologia al Weill Cornell Medical College e direttore di Oftalmologia al New York Presbyterian Hospital, Usa – i farmaci iniettati per via intravitreale vanno ad inattivare il meccanismo di infiammazione che è mediato dalla ‘cascata del complemento’, ovvero una serie concatenata di eventi infiammatori responsabili della degenerazione fotorecettoriale. I farmaci rallentano in una buona percentuale di pazienti l’evoluzione della malattia senza purtroppo restituire la vista”. E’ attesa per il 2024 l’approvazione da parte dell’Agenzia europea del farmaco Ema, dopo l’ok della Fda americana qualche mese fa, di due nuovi farmaci: il pegcetacoplan e Izervay*.
Quanto alla maculopatia umida, è causata da una crescita anomala di neovasi sotto la macula e con questa forma la compromissione della vista può avvenire in modo repentino. Da qualche anno la terapia si avvale di farmaci molto potenti diretti contro un fattore di crescita che facilita la proliferazione dei neovasi nella regione maculare. Sono le terapie anti-Vegf, che vengono somministrate direttamente nell’occhio attraverso iniezioni intravitreali in maniera continuativa, in genere una volta al mese, con notevole impegno di tempo anche da parte del paziente e dei suoi caregiver. “Sono però finalmente in arrivo terapie innovative, sempre più potenti e a lunga durata di azione, che ci consentiranno di allungare gli intervalli di trattamento – evidenzia Teresio Avitabile, presidente della Società italiana di scienze oftalmologiche (Siso) – E’ il caso del nuovo anticorpo faricimab, disponibile da pochi mesi e a breve rimborsabile dal Servizio sanitario nazionale. E’ il primo anticorpo bispecifico, cioè a doppio bersaglio, perché oltre ad agire come anti-Vegf colpisce anche l’angipoietina-2, un’altra sostanza che concorre ad aumentare la formazione di nuovi vasi, contribuendo in questo modo a migliorare la stabilità vascolare e a ridurre la risposta dei vasi ai Vegf”.
Sempre nel 2024, contro la maculopatia senile umida e l’edema maculare diabetico arriverà in Italia anche un anticorpo monoclonale anti-Vegf già utilizzato, ranibizumab, inserito in un piccolo serbatoio ricaricabile. “L’innovativa strategia terapeutica – illustra Carl Coolin Awh, presidente del Tennessee Retina di Nashville, Usa – consiste nell’impiantare chirurgicamente nell’occhio piccoli serbatoi che rilasciano gradualmente il farmaco all’interno. Questo potrebbe estendere l’intervallo di ritrattamento a 6 mesi, semplicemente facendo il refill del serbatoio e riducendo così il numero delle iniezioni necessarie all’anno”. I dati mostrano che quasi tutti i pazienti (98%) possono lasciar passare un intervallo di 6 mesi fra un refill e l’altro, con la stessa efficacia terapeutica del trattamento mensile intravitreale del farmaco. Anche per quanto riguarda l’impiego di faricimab, recenti studi pubblicati anche su ‘The Lancet’ confermano che nel 60% dei pazienti può essere somministrato ogni 4 mesi, anziché ogni 2 come l’attuale standard terapeutico. I nuovi trattamenti aggiungono quindi un vantaggio: l’estensione dell’intervallo tra le somministrazioni, riducendo il numero delle iniezioni.
Si va poi affermando la terapia genica, la forma più avanzata di trattamento, che rappresenta una grande risorsa contro alcune patologie retiniche rare. “E’ ormai consolidata e approvata – rimarca Rizzo – la terapia genica per una forma di distrofia retinica ereditaria, l’amaurosi congenita di Leber (Lca), mentre sono attualmente in corso trial clinici per altre varianti di retinite pigmentosa, la sindrome di Usher e la malattia di Stargardt. Si tratta di patologie per le quali i ricercatori sono riusciti a individuare un gene ‘difettoso’ specifico che impedisce a determinate cellule retiniche di funzionare correttamente, causando problemi alla vista che possono peggiorare nel tempo. Con la terapia genica questi geni difettosi vengono sostituiti con copie sane, che vanno così a correggere l’errore che ha scatenato la malattia, potenzialmente per tutta la vita”.
Grazie ai progressi della scienza e della tecnologia medica, la terapia genica potrà presto essere utilizzata anche contro alcune gravi patologie oculari e non solo per correggere malattie ereditarie. “E’ allo studio anche una terapia genica per il trattamento della maculopatia senile umida, per la retinopatia diabetica e altre malattie retiniche croniche. In questi casi – precisa lo specialista del Gemelli – non si tratta di sostituire un gene malato né di correggere un difetto, ma di modificare il genoma delle cellule retiniche inducendole a produrre sostanze anti-Vegf, che agiscono come quegli stessi farmaci che finora abbiamo iniettato dall’esterno una volta al mese”.
Infine, nuove possibili applicazioni per la diagnosi di patologie retiniche potrebbero arrivare dall’Ia. In un trial clinico italiano condotto in Piemonte e in Veneto è stata dimostrata l’efficacia di uno specifico algoritmo, Dairet, per lo screening di primo livello della retinopatia diabetica, complicanza che interessa il 30% dei pazienti diabetici. Lo studio, pubblicato su ‘Diabetes & Obesity International Journal’, ha dimostrato un’elevata efficacia dell’algoritmo nel rilevare i casi lievi e moderati di retinopatia, con un rapporto di sensibilità, ossia di capacità di individuazione dei casi, pari al 91,6% per la retinopatia lieve e al 100% per la retinopatia moderata. Anche la specificità del test, cioè la capacità di identificare correttamente i soggetti sani, è risultata molto alta, con un rapporto di specificità pari all’82,6%, quindi con basso tasso di falsi positivi.